L’ultima puntata della trasmissione Rai Presa Diretta ha suscitato un ampio interesse nel mondo universitario più che altro di chiusura corporativa sostenendo, come ha fatto il professor Francesco Ramella su queste pagine, che l’università italiana è ben posizionata a livello internazionale, che vi sono buoni ricercatori e che i ricorsi sono limitati.

Fatti che non sono in contraddizione con selezioni concorsuali ad personam (in sostanza gira intorno confonde i dati con l’unica domanda posta dalla trasmissione): la selezione per accedere alla carriera universitaria è un concorso pubblico? Nella forma la risposta è chiaramente si, viene fatto un bando, c’è una commissione che valuta i candidati, indica i criteri di selezione e gli atti sono pubblici, ma nella sostanza?

Segui il denaro

Per trovare una risposta si può tenere in considerazione il metodo Falcone: segui il denaro. Da dove arrivano i soldi necessari all’assunzione del ricercatore? Risposta dal Ministero, ma ogni università non ha una dotazione data e definita ogni anno, deve conquistarsela, deve contrattare, deve dimostrare al ministero le necessità in base ai numeri, alla didattica e quindi c’è qualcuno che nell’università lavora per portare a casa il risultato (i fondi).

Una volta che l’università riceve la dotazione in denaro dal ministero per un certo numero di posti si apre una seconda partita a quali dipartimenti (Economia, Sociologia, Giurisprudenza…) andranno questi fondi? Chi prende di più? Chi di meno? Chi niente? Scatta un livello locale di contrattazione che finirà con la definizione delle dotazioni per ogni Dipartimento a cui farà seguito la terza fase interna ai singoli Dipartimenti: per quali discipline verrà bandito il posto (antropologia, diritto, storia…)? Fino alla quarta fase, dopo che si è deciso, ad esempio, che vi è un posto di diritto è necessario definire quale diritto (privato, commerciale, pubblico….).

Ora c’è chi segue tutte le fasi di questo percorso, che dedica tempo, lavoro perché questo denaro arrivi alla sua disciplina e una volta che ottiene il risultato considera questo denaro “suo” e non può esserci un altro che venga a sottrarglielo e vanifichi le sue fatiche. C’è una concezione privatistica e personalistica dell’Istituzione universitaria: la conseguenza è che presentarsi al concorso di un altro è considerato un affronto, voler sottrarre una risorsa che uno si è conquistato, un posto che è suo. Di conseguenza il concorso non è un processo pubblico di selezione dei migliori, ma dei bravi embedded.

Ora basta sostituire la parola concorso con appalto, la parola università con politica e così non si trova solo la risposta alla domanda iniziale, ma l’Italia.

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