«E allora è venuto il momento dei lunghi discorsi, ripartire da zero e occuparsi un momento di noi. Affrontare la crisi, parlare, parlare e sfogarsi e guardarsi dentro per sapere chi sei. E c’era l’orgoglio di capire. E poi la certezza di una svolta, come se capire la crisi voglia dire che la crisi è risolta».

Queste parole tratte da I reduci, canzone del 1976 di Giorgio Gaber rappresentano al meglio l’ennesimo cantiere, l’ennesima discussione apertasi dentro il Pd, partito campione mondiale di autoflagellazione.

Così, mentre i Cinque stelle guidati dal neo-barricadeero «de sinistra» Giuseppe Conte, e la Lega di Matteo Salvini sembrano godere di ottima salute con una perdita netta di 18 punti percentuali rispetto al 2018, i primi, e di 10 il secondo (con un -26 per cento rispetto alle europee 2019), il Pd medita il suo scioglimento per aver ottenuto grosso modo la stessa percentuale di quattro anni fa.

Logica avrebbe voluto che si fosse dimesso immediatamente il segretario col rispettivo gruppo dirigente e si fosse aperto un congresso per eleggerne uno nuovo.

Ma tant’è, Salvini spadroneggia e Letta pare un ectoplasma in attesa del congedo definitivo. Lo spazio in mezzo dalla sua sconfitta all’apertura del congresso tanto è occupato dalla solita crisi d’identità di gaberiana memoria, scandita dalle domande kantiane, chi siamo, da dove veniamo, dove crediamo di andare?

Fra le diverse analisi pubblicate da Domani, ho letto con particolare interesse la critica di Nadia Urbinati al manifesto del partito, in cui riecheggia il «ma… anche…» stile Crozza-Veltroni: tutto e il contrario di tutto.

Trovare il punto di equilibrio fra gli opposti è impresa che equivale alla ricerca della pietra filosofale. Il risultato non può che essere quello visto nel 2008, una fusione a freddo senza né capo né coda.

Quattordici anni dopo sembriamo al punto di partenza, ma con un quadro politico totalmente cambiato (in Italia e all’estero) e tanti, tanti voti in meno rispetto a quel 34 per cento che oggi appare un miraggio.

Improvvisata com’era quell’operazione di portata epocale, Walter Veltroni, a cui la classe dirigente si era affidata come se la sua popolarità potesse risolvere ogni contraddizione, sembrava essere diversi passi avanti rispetto ad un elettorato che non aveva introiettato l’idea di un partito a vocazione maggioritaria, così come è pensato nelle democrazie anglosassoni.

Un contenitore in cui abita uno spettro di posizioni che può andare da Jeremy Corbyn a Tony Blair, da Alexandria Ocasio-Cortéz a Hillary Clinton.

In cui il conflitto interno riflette l’esigenza di rappresentanza indispensabile in una società, si fanno le primarie e, una volta stabilito chi vince, il partito si trasforma in un comitato elettorale.

Chi perde, organizza la sua parte e si prepara per le successive primarie.

O elettrici ed elettori di centro-sinistra modificano la propria cultura politica, oppure si potrà sciogliere tutto per ritrovarsi al punto d’origine: unire culture politiche diverse per poter essere competitivi alle elezioni contro una destra che questa lezione l’ha capita benissimo.

Le parole di Giorgio Gori, che già annuncia l’abbandono in caso di vittoria di Ellly Schlein al congresso non inducono a sperare che il messaggio sia stato introiettato nemmeno dai vertici, figuriamoci dalla base.

Allora che sia, disfiamo tutto e, per citare il grande Giorgio Caproni «Saremo nuovi. / Non saremo noi. / Saremo altri, e punto / per punto riedificheremo / il guasto che ora imputiamo a voi».

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