Nelle democrazie parlamentari i segretari dei partiti, destinati a diventare capi dei governi e/o delle opposizioni seggono, dopo regolare elezione, in parlamento. Detto che, altrove, i primi ministri tecnici, tecnocratici, venuti dalla società civile e dagli schermi televisivi, semplicemente non esistono, la presenza dei segretari dei partiti in parlamento risponde ad alcune premesse e mira ad alcune conseguenze, tutte importanti.

La premessa più importante è che, per entrare in parlamento, quel capo partito deve misurarsi con gli elettori, interloquendo con loro, cercando di imparare le loro preferenze e esigenze, esprimendo le sue posizioni.

La campagna elettorale, soprattutto dove ancora esistono mass media e cronisti di valore, è una cosa molto seria. Oserei aggiungere che è la premessa di una buona attività parlamentare. La conseguenza più significativa è che l’eletto, se ha guidato il suo partito a una vittoria numerica e politica, è automaticamente il candidato alla carica di capo del governo.

Il/la più forte dei segretari di partito che hanno perso diventerà il capo dell’opposizione. Inevitabilmente, nei miei occhi sta lo spettacolo esemplare e istruttivo degli scambi rapidi, incisivi, sarcastici a Westminster fra il capo del governo e quello dell’opposizione che comunicano informazioni, politiche, critiche con grande giovamento per l’opinione pubblica.

Quando nel 1963 i Conservatori inglesi dovettero fare fronte alle dimissioni del loro primo ministro e scelsero Lord Alec Douglas-Home, il prescelto fu obbligato a lasciare la carica di Lord e due settimane dopo partecipò ad un’elezione suppletiva per entrare alla Camera dei Comuni.

Lo scrisse memorabilmente Max Weber che il primo ministro inglese deve sapere essere il «dittatore del campo di battaglia parlamentare». Naturalmente, non tutti i capi dei governi parlamentari sono egualmente dotati quanto a capacità oratoria e a presenza scenica.

Certo, sia Margaret Thatcher sia Tony Blair lo sono stati, ma l’importante è che la dialettica politica sia ricondotta e sviluppata nelle aule parlamentari.

Tutti coloro che lamentano, talvolta per ragioni sbagliate, il declino, il tramonto, l’eclisse del parlamento, dovrebbero apprezzare quei dibattiti condotti dai segretari dei partiti e, soprattutto, ogni volta che è possibile, dal capo del governo che si confronta con il capo dell’opposizione e i suoi altri antagonisti. 
Non meno importante è sapere che il capo non-parlamentare di un partito inevitabilmente non è al crocevia delle informazioni, delle sensazioni, dei malumori, qualche volta dei dissensi e dei complotti che fanno regolarmente la loro comparsa in tutti i parlamenti. Rischia di venire a conoscenza di quello che bolle in pentola con qualche potenzialmente molto negativo ritardo. Non è, comunque, in grado di acquisire di persona quanto circola in aule parlamentari che per lo più non frequenta. 
Quella che potrebbe essere una riflessione accademica, comunque mai trascurabile, su quale sia la collocazione migliore per un segretario di partito, diventa, invece, qualcosa di immediatamente rilevante.

Al momento sia il Pd sia il Movimento Cinque stelle sono guidati da due personalità non parlamentari, qualcuno potrebbe persino aggiungere “extraparlamentari” che, per Giuseppe Conte, appare qualifica sostanzialmente adeguata.

Credo che Enrico Letta dovrebbe accettare di essere candidato nel collegio di Siena e mirare a tornare in parlamento. Una sua buona campagna elettorale avrebbe valenza nazionale. Gli servirebbe per affinare le tematiche che ritiene rilevanti. I voti che conquisterà daranno anche una misura del consenso suo e del suo partito.

Infine, tornato in parlamento, la sua già acquisita competenza gli sarà molto utile nei rapporti con parlamentari pd che non ha scelto e nei confronti con i leader degli altri partiti, ad eccezione di Conte, che tutti già seggono alla Camera o al Senato. Gioverà anche al recupero di prestigio del parlamento. Non è poco.

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