Alla fine, Giuseppe Conte è rimasto l’avvocato del popolo che aveva promesso di essere al suo primo insediamento da presidente del Consiglio. Il documento con le richieste del Movimento Cinque stelle a Mario Draghi è un ritorno al 2018.

Da due punti di vista: rivela la natura impolitica dell’approccio di Conte al governo, che quattro anni fa si era tradotta nel tentativo di ridurre l’alleanza con la Lega di Matteo Salvini alla firma di un “contratto” che perimetrava il programma dell’esecutivo, e conferma l’incapacità di Conte (e dei Cinque stelle) di sviluppare una identità propria che non sia quella tipicamente populista dei cittadini contro la casta.

Le sette pagine sotto il logo “Movimento Cinque stelle 2050” (un tantino velleitario, viste le prospettive) hanno come premessa la dichiarazione che “Le ragioni dell’esistenza stessa del Movimento 5 Stelle sono gli interessi dei cittadini e il bene del Paese”.

E già ci potremmo fermare qui. Un mini-manifesto populista, nella accezione di Cas Mudde e di altri studiosi: la rivendicazione di un approccio olistico e, sotto la patina conciliante, illiberale alla democrazia. Se il Movimento Cinque stelle si batte per i cittadini, tutto ciò che altri partiti propongono e fanno di diverso è per definizione contro i cittadini.

«Non siamo un partito, non siamo una casta, siamo cittadini, punto e basta», era l’inizio dell’indimenticato Ognuno vale uno, lontano inno del Movimento Cinque stelle nel 2010. L’elaborazione culturale e politica pentastellata non è stata capace di sganciarsi da quell’idea. I singoli sì, ma il progetto è rimasto fermo, solo annacquato.

Dimenticare il passato?

Il resto del preambolo del documento è involontariamente comico, come quando Conte rivendica che i Cinque stelle hanno «sempre posto al centro della nostra azione politica la difesa dei principi democratici e delle prerogative del Parlamento contro ogni possibile forma di impoverimento e mortificazione della sua funzione».

Che detto dal partito che proponeva di “aprirlo come una scatoletta di tonno”, di introdurre il vincolo di mandato, di ridurre gli stipendi degli onorevoli degradati a “portavoce” dei cittadini e infine renderli obsoleti con la democrazia diretta, fa un po’ sorridere.

Poi, e non è un dettaglio, i Cinque stelle hanno anche ottenuto il taglio costituzionale di un terzo dei parlamentari.

Segue una lunga perifrasi per dire che il Movimento Cinque stelle sta pagando il suo appoggio al governo Draghi e che la colpa, in sintesi, è di Draghi che non ascolta le richieste pentastellate.

Ora, se pensiamo a come era partita questa crisi pare una analisi assurda: tutto è cominciato perché, in una intervista al Fatto Quotidiano, il sociologo e collaboratore dei Cinque stelle Domenico De Masi ha detto che Beppe Grillo gli avrebbe detto che Mario Draghi ha chiesto di sostituire Conte alla guida del Movimento. Questo telefono senza fili ha prodotto, invece che il nulla che meritava (affermazioni prive di riscontri), giorni e giorni di polemiche e un rientro anticipato del premier dal vertice Nato di Madrid.

Tutto  questo scompare dalle richieste del Movimento, così come scompare quello che all’apparenza era un tale punto di dissenso tra Cinque stelle e Draghi da aver generato la scissione di Luigi Di Maio, cioè la linea sulla guerra.

Le frasi sul tema non vogliono dire assolutamente nulla. Tipo:  «Il senso di responsabilità verso il Paese e verso le future generazioni ci impone di rivendicare con sempre maggiore forza le nostre idee e le nostre convinzioni contro la guerra, per la pace e il disarmo espresse, da ultimo, con infinito coraggio e troppa solitudine da Papa Francesco». Chi può essere in disaccordo?

C’è poi una complessa perifrasi per ribadire le posizioni atlantiste ed europeiste dei Cinque stelle. Luigi Di Maio non avrebbe saputo esprimersi meglio

Il mini-programma

Le richieste in materia di politica economica sono in parte fumose in parte minimali: qualche chiarimento sul Reddito di cittadinanza, il salario minimo (che però è impantanato in parlamento, e poco c’entra il governo), il ritorno ai vincoli del decreto dignità sui contratti a tempo determinato, ma anche – sorpresa – il taglio del cuneo fiscale chiesto dal Pd e Confindustria, e poi “una soluzione davvero funzionale” per sbloccare le cessioni dei crediti relativi al Superbonus edilizio (ma non, attenzione, nuove risorse), il ripristino del cashback e così via.

Sottoporre al governo una simile lista che pare quasi un mini-programma di governo può avere due obiettivi: mettere Draghi in condizione di essere sempre inadempiente, e dunque innescare la crisi.

Oppure dire a Draghi “fai una cosa, anche una sola della lista, e così ci togli dall’imbarazzo e ci consenti di rimanere al governo e salvare la faccia”. Per chiarire, Conte ha subito detto che non esce dalla maggioranza. Quindi il suo scontro finale con Draghi si è concluso con una sostanziale resa.

Il ritorno dell’avvocato del popolo, al posto del leader politico di opposizione che si intravedeva, si sostanzia in frasi come questa: «Il senso di responsabilità che abbiamo verso il Paese e verso i cittadini ci impone un confronto chiarificatore, che recuperi una piena dialettica che è venuta a scemare e valga a ottenere indicazioni precise sull’indirizzo politico che vuole imprimere al Suo Governo».

In quelle maiuscole ossequiose nei confronti di Draghi c’è tutta l’impotenza di Conte e del suo Movimento.

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