L’inflazione sta salendo e sta generando una rapida riduzione del potere d’acquisto degli italiani, con il rischio che si avvii una spirale di stagflazione, dove l’ascesa dei prezzi riduce la capacità di spesa delle famiglie italiane fino a generare un calo dei consumi.

Questa riduzione è particolarmente elevata per salari e pensioni che non hanno la possibilità di variare nel breve termine, mentre professionisti ed imprese possono in parte difendersi aggiustando i loro prezzi.

Torna così la voglia di indicizzare i redditi per difenderli dall’inflazione, con il rischio di riproporre la spirale inflazionistica da cui siamo usciti con tante difficoltà negli anni Novanta grazie agli accordi sulla scala mobile e al nuovo modello di contrattazione salariale uscito dal patto sociale favorito dall’allora presidente della Repubblica Carlo Cazeglio Ciampi.

Proprio a quegli accordi occorre tornare, a mio avviso, se si vogliono difendere i salari ed evitare la spirale inflazionistica. Ricordo, anche perché ne sono stato in parte l’autore, che in assenza di scala mobile, si decise di negoziare gli incrementi salariali con una cadenza più ravvicinata, ossia due anni invece di quattro, lasciando la cadenza lunga solo per gli aspetti normativi.

Questa scelta consentiva di evitare rischi di perdita salariale (o di eccesso di crescita salariale) nei casi di improvvise variazioni dell’inflazione.

La scelta aveva una sua logica e personalmente insistetti per una cadenza annuale dei rinnovi salariali. Proprio al fine di minimizzare questi rischi in molti paesi gli aggiustamenti salariali avvengono ogni anno, senza troppi traumi perché chi negozia sa che, in caso di errore in un senso o nell’altro, può sempre correggersi in tempi brevi.

Così la contrattazione non diviene più una scommessa ne un’espressione di rivendicazioni sociali a lungo represse, ma un normale adeguamento che tenga conto sia dell’inflazione che della situazione del comparto produttivo di riferimento. La parte normativa del contratto può rimandare stabile per 4 o più anni a seconda delle esigenze.
Invece nel tempo le parti sociali si sono accordate per allungare i termini dei contratti, nella speranza (errata) di ridurre le tensioni, con il risultato che oggi in molti comparti produttivi i salari sono scoperti rispetto la recrudescenza dell’inflazione, si determineranno slittamenti salariali nelle aziende per tenere conto della nuova situazione e i prossimi contratti saranno negoziati con rivendicazioni più forti e tensioni esacerbate. Tornerà la voglia di mettere una forma di scala mobile per proteggersi in futuro.
Ridurre la durata temporale dei contratti salariali è, a mio avviso, la soluzione giusta per evitare di tornare alle indicizzazioni che finiscono per perpetuare e amplificare i processi inflazionistici.

Inoltre contratti più brevi finiscono per ridurre le tensioni, evitando di concentrare tutti gli aumenti alla fine del periodo, con l’obiettivo di pesare meno nella fase contrattuale, ma con il risultato di rendere ancora più difficile la successiva contrattazione perché destinata a partire da un gradino elevato.


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