Statisti non si nasce, si diventa. È un processo lungo, spesso tormentato, qualche volta l’esito è un riconoscimento postumo. Nel 2005, quando divenne cancelliera per la prima volta, pochissimi pensarono che Angela Merkel si sarebbe trasformata in una statista. Ammetto che il paragone con Luigi Di Maio che, sicuramente, statista non nacque, è comunque azzardato, ma se pensiamo ai loro rispettivi punti di partenza, il tragitto compiuto dal già due volte ministro del Movimento 5 stelle è lungo assai.

Poco più di due anni fa celebrava con un ballo da balcone l’abolizione della povertà. Oggi, pure in una fase difficoltosa del Movimento in declino, Di Maio assume atteggiamenti responsabili. Sembra avere capito, contrariamente a molti fra i Cinque stelle, ma anche negli altri partitini italiani, che la situazione politica e sociale in Italia è molto brutta e che le soluzioni debbono essere non proclamate, ma impostate con cura e fatte maturare. Finalmente s’è reso conto che bisogna passare dalla protesta a qualcosa di più della proposta, alla traduzione concreta in comportamenti. Peraltro, la protesta non può essere del tutto abbandonata, meno che mai lasciata a disposizione di Alessandro Di Battista. Deve, invece, essere governata. Continuerà a esistere poiché per un periodo indefinito di tempo molte cose in Italia non andranno come vorremmo. Protestare è, spesso, giusto, sono i modi della protesta a diventare talvolta deplorevoli e Di Maio ha lasciato intendere che in effetti lui li «riprova».

Paradossalmente il passo indietro che ha fatto - da leader del Movimento a esponente autorevole nonché ministro che impara il suo mestiere - ne ha fatto una voce ascoltata poiché non esprime soltanto ambizioni personali. Ha già avuto molto e non ha bisogno di sgomitare.

Grazie alla deroga alla regola dei due mandati potrà svolgerne anche un terzo, quindi, può proiettare il suo pensiero, la sua azione e la sua ambizione (e ne ha, eccome, ed è legittima) anche oltre l’orizzonte del secondo governo Conte. Quel governo e quel capo di governo li deve difendere non soltanto perché sono anche il prodotto, il secondo più del primo, di sue preferenze e di sue scelte, ma perché ha capito che la stabilità politica è indispensabile per chiunque intenda conseguire efficacia per le politiche che attua. Il futuro del governo è strettamente collegato con il futuro del Movimento. Di Maio non è l’unico ad avere capito che soltanto se il governo Conte dura, e giungendo a fine legislatura potrà vantare buoni risultati, compreso il superamento della pandemia, il Movimento potrà riacquisire almeno alcuni dei troppi voti che i sondaggi tetragoni danno per perduti dal marzo 2018 ad oggi. Di Maio ha capito che quei voti non risorgeranno da un bagno di opposizione nel quale il Movimento rischierebbe di annegare. Infine, il suo personale processo di apprendimento, finora più politico che istituzionale, ha portato di Di Maio a rendersi pienamente conto dell’importanza di una posizione aperta nei confronti dell’Unione Europea che è l’ancora di salvezza per il sistema politico e economico italiano. Essere ministro degli Esteri ha comportato la necessità di apprendere molte lezioni e di farlo in maniera accelerata, vedendo anche che grama e triste è la vita dei populisti nel parlamento europeo.

Non possedendo qualità di introspezione psicologica, sono costretto a cercare consapevolmente nella dinamica dei sistemi politici le condizioni che influenzano quella che è la trasformazione della persona pubblica di Di Maio. Ancora una volta la democrazia parlamentare ha dimostrato di essere tutt’altro che una forma debole di governo. Con i suoi vincoli, con le sue regole, precise, ma anche flessibili e adattabili, ha accolto il Movimento 5 stelle e lo ha costretto a svolgere la sua azione «nelle forme e nei limiti della Costituzione». Il nuovo Di Maio è la conseguenza apprezzabile delle costrizioni politiche e costituzionali esistenti e vitali nella Repubblica italiana.

 

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