Da almeno 80 anni il dollaro è di gran lunga la moneta con maggior ruolo internazionale. Al secondo posto, con considerevole distacco, viene l’euro che, dopo la sua nascita nel 1999, ha prima rapidamente accresciuto il suo ruolo internazionale ma, dopo la grande crisi del 2008 e, soprattutto, quella dell’eurozona nel 2010-2012, ha ridimensionato la sua importanza, che però negli ultimi anni è ricresciuta un poco.

Oggi conta per circa un terzo del dollaro. Le altre valute con spazi internazionali significativi (in ordine decrescente di importanza: yen, sterlina, renmimbi, dollaro canadese, dollaro australiano, franco svizzero) hanno un ruolo minore, o molto minore, di un decimo di quello del dollaro.

Il ruolo internazionale di una moneta

Il ruolo internazionale di una moneta si può misurare da diversi punti di vista, con risultati diversi: la percentuale di riserve ufficiali delle banche centrali denominate in quella moneta; la misura del suo uso come moneta di fatturazione del commercio internazionale; quello come moneta di regolamento del commercio;  quello come valuta di denominazione di debiti e crediti internazionali pubblici e privati di vario tipo e degli investimenti diretti internazionali; la percentuale di tutte le transazioni valutarie, di qualunque tipo, dove la moneta è presente, dal lato dell’acquisto o della vendita.

L’importanza del dollaro è massima in quest’ultima misura perché esso non ha rivali come moneta veicolo: si stima che quasi 9 su 10 compravendite di valuta che avvengono al mondo coinvolgono la moneta statunitense anche se il fine è una compravendita fra due monete diverse dal dollaro.

Per comprare la moneta x con la y conviene spesso comprare dollari con y e usare i dollari per comprare x: perché è più efficiente e meno costoso passare dal dollaro che ha i mercati più attivi e liquidi con tutte le valute

In dollari sono inoltre denominati una grandissima quota dei debiti esteri, pubblici e privati di molti paesi, soprattutto quelli meno sviluppati, e della raccolta internazionale delle loro banche.

Negli ultimi anni alcune misure del ruolo del dollaro sono in tendenziale discesa: in particolare, è sceso  il suo peso nel totale delle riserve ufficiali delle banche centrali, pur rimanendo appena sotto il 60 per cento, il che peraltro significa dieci punti in meno dall’inizio del secolo.

A beneficiarne di più non sono però le altre più tradizionali e importanti monete di riserva (euro, sterlina e yen), ma le cosiddette monete di riserva non tradizionali: i dollari canadese e australiano, la corona svedese e il won sudcoreano.

Esse sono andate occupando quasi tre quarti dello spazio perso dal dollaro, soprattutto per la valutazione positiva dei mercati circa la stabilità delle politiche e delle finanze dei paesi che le emettono; il residuo quarto è stato occupato dal renmimbi; ma le maggiori riserve in renmimbi sono state accumulate per un terzo dalla sola Russia.

La deglobalizzazione   

Nel complesso si tratta di un’evoluzione del sistema finanziario internazionale che continua a ruotare saldamente attorno alle piazze finanziarie dei paesi occidentali e rimane centrata su quella statunitense.

Questo avviene nonostante il peso relativo dell’economia reale dei paesi emergenti sia rapidamente crescente e il rapporto fra il Pil americano e quello mondiale sia sceso dal 30 per cento di inizio secolo al 23 attuale.

Si tratta di una conseguenza di lungo andare della globalizzazione, che è stata particolarmente accentuata nella finanza.

Vien da chiedersi in che misura sia da attendersi un netto cambiamento nella conformazione del sistema finanziario del mondo come conseguenza di una deglobalizzazione alimentata anche, negli ultimi anni, dalla pandemia e dalla guerra ucraina.

Già dopo la grande crisi finanziaria del 2008 gli indici di globalizzazione avevano rallentato e mostrato segni di regionalizzazione delle relazioni commerciali attorno ai tre fulcri statunitense, europeo e asiatico.

Il commercio internazionale aveva ripreso nel 2017e 2018 e di nuovo rallentato nel 2019.  L’ipotesi di una inversione strutturale della globalizzazione era controversa ma plausibile quando, nel 2020 il Covid-19 causava un calo maggiore del 5 per cento nel commercio mondiale, che riprendeva poi nel 2021 per venir di nuovo ostacolato dalla guerra e dalle crescenti ristrutturazioni delle catene del valore.

I potenziali effetti della guerra, in particolare, sembrano rilevanti perché le sanzioni e le dinamiche geopolitiche a essa associate fanno temere una frattura che spezzerebbe i flussi economici e finanziari fra gruppi contrapposti di paesi.

Impressiona il fatto che fra le prime sanzioni contro la Russia vi sia stato il congelamento delle sue riserve in monete occidentali e la sua esclusione dalle transazioni del sistema Swift.

Inoltre, il tentativo della Russia di riorientare il suo commercio e la sua finanza verso la Cina sembrerebbe supportare l’ipotesi della formazione di un blocco economico e finanziario orientale al quale potrebbero associarsi diversi paesi asiatici fino a comprendere l’India e altri paesi emergenti oggi meno allineati con le posizioni politiche occidentali, come il Brasile e il Sud Africa.

I paesi del gruppo Brics hanno voluto sottolineare la loro unità sotto la presidenza cinese con il summit virtuale del 23 giugno scorso.

La loro crescente collaborazione finanziaria ha anche dato luogo alla New development bank che dal 2016 opera nel finanziamento dello sviluppo in parte in concorrenza con altre istituzioni finanziarie multilaterali.

Il ruolo della Cina

Se la guerra della Russia è ciò che fa ora più pensare a traumatiche evoluzioni geopolitiche, queste non potrebbero che avere come protagonista indiscussa la Cina.

Ed è la finanza e la moneta cinese che potrebbe crescere di importanza in seguito a tali evoluzioni. Siamo forse alla vigilia di uno spiazzamento del dollaro da parte del renmimbi?

Il regno di mezzo è la seconda economia mondiale: l’80 per cento degli Stati Uniti, più di 10 volte la Russia; occorre sommare il Pil dei 18 paesi di Asia e Africa che seguono la Cina nella classifica mondiale per superare quello cinese.

A parità di poteri d’acquisto è la prima economia, 20 per cento maggiore degli Usa. La Russia viene solo al 21esimo posto fra i destinatari dell’export cinese; l’export della Cina in Usa è quasi 13 volte quello verso la Russia. La quale è al settimo posto come provenienza dell’import cinese; la Cina importa dalla Russia il 30 per cento di quanto importa dall’Ue.

L’idea che la Cina diventi la nuova principale potenza monetaria del mondo è per ora da escludere del tutto.

Per avere un ruolo globale dominante una moneta deve basarsi su una piazza finanziaria molto articolata, efficiente, con una gamma completa di ben sviluppati mercati di diverse attività fra le quali i detentori di saldi in quella valuta di tutti i paesi possano investire il loro portafoglio.

La principale caratteristica di una moneta dominante il sistema internazionale è quella di essere ben integrata col resto del mondo e consentire a chi la detiene una ricca gamma di impieghi diversi per liquidità, rendimento, rischio.

La Cina è lontana dalla possibilità di concorrere con gli Stati Uniti su questo fronte. I mercati finanziari cinesi sono ancora inadeguatamente sviluppati e integrati col resto del mondo, i movimenti di capitali sono ancora molto controllati da molteplici vincoli che è comunque difficile rimuovere se anche la sua economia reale non completa la sua trasformazione in economia di mercato ridimensionando i poteri di interferenza arbitraria della politica.

Vi sono oggi circuiti finanziari con cui le principali imprese cinesi aggirano parte dei vincoli agli investimenti internazionali, soprattutto tramite la piazza di Hong Kong. Ma si tratta di intelaiature fragili anche giuridicamente, che presentano rischi dei quali non tutti gli investitori occidentali in Cina sono adeguatamente consapevoli.

Meno improbabile è l’avvento di una regionalizzazione del sistema monetario globale, con la Cina che domina una regione orientale.

La regionalizzazione potrebbe essere amichevole e corrispondente a quella di relazioni commerciali e catene del valore che si van facendo meno disperse e fuori controllo di quelle attuali.

Un sistema monetario multivalutario, dove anche l’euro avrebbe il suo spazio, con un buon grado di concertazione e controllo centrale da parte di un’istituzione come il Fmi, può essere stabile, competitivo ed efficiente.

A limitare i rischi di instabilità dei cambi, a volte connaturati ai sistemi monetari autenticamente multivalutari, potrebbe servire lo sviluppo di una rete internazionale di central bank digital currencies (Cbdc, strumenti di pagamento digitali equivalenti a depositi presso la banca centrale), monitorato dal Fmi ma sostanzialmente governato da regole di coordinamento decentrato supportate anche da tecnologie distributed ladger.

La Cina è una leader mondiale nel disegno delle Cbdc ed è l’unico grande paese ad aver già introdotto l’uso corrente di una moneta digitale, l’e-yuan, che oggi conta 261 milioni di utilizzatori.

Per ora si tratta di una Cbdc utilizzata al dettaglio per pagamenti interni: essa può però evolvere in un uso all’ingrosso per pagamenti cross border in un’area e con regole definite che possono riguardare anche i rapporti di cambio.

Cbdc ben disegnate, con stretta collaborazione internazionale, possono rendere i pagamenti cross border più efficienti e meno costosi e il sistema dei cambi più coordinato e stabile.

La Cina potrebbe organizzare una rete regionale di pagamenti con Cbdc, finendo per imporre di fatto lo yuan alla regione, ma potrebbe invece essere indotta a impegnarsi in una rete mondiale con l’interoperabilità delle altre principali valute.

Una nuova organizzazione dei pagamenti internazionali può essere una fonte di grandi benefici economici e nuova stabilità finanziaria, ma potrebbe evolvere anche in una competizione per blocchi destabilizzante.

Una regionalizzazione economica, commerciale e finanziaria basata su blocchi geopolitici nemici e contrapposti sarebbe dannosa per tutti, fino a diventare insostenibile e foriera di sviluppi disastrosi. Probabilmente il pragmatismo cinese ci eviterà gli scenari peggiori. La guerra ucraina vede l’acuirsi di tensioni retoriche che non impediscono cooperazioni pratiche fra Cina e occidente e non pare aver rilanciato il commercio fra Russia e Cina; anzi, a maggio 2022 le esportazioni cinesi in Russia erano del 9 per cento inferiori a un anno prima, mentre il forte aumento delle importazioni nello stesso periodo è interamente dovuto al valore dei metalli preziosi.

Lo scenario multipolare 

Per ridurre il rischio che il mondo vada a pezzi sarebbe anche utile un atteggiamento meno aggressivo nei confronti della Cina da parte degli Stati Uniti.

Una governance mondiale ridotta a un G2 conflittuale è lo scenario peggiore. La sua probabilità dipende anche dall’evoluzione del conflitto in Ucraina.

Se escludiamo che questo continui molto a lungo e si accentui fino a coinvolgere scontri militari diretti fra Nato e Russia, nel qual caso prevedere la governance mondiale è esercizio scoraggiante,  gli esiti possibili, a parte stalli brevi e sterili, sono un lungo armistizio accompagnato da trattative prive di solide conclusioni e un vero trattato di pace.

Nel primo caso le sanzioni contro la Russia, molto probabilmente, rimarrebbero mentre nel secondo verrebbero gradualmente eliminate.

Con il permanere a lungo di sanzioni, magari sempre più severe man mano che i poteri di ricatto energetico della Russia diminuiscono, la probabilità di un G2 conflittuale crescerebbe, anche per un probabile indebolimento del polo europeo: un armistizio che non porti rapidamente alla pace faciliterebbe la Cina nel “catturare” la Russia senza apparire con lei cobelligerante.

Lo stesso succederebbe nel caso di una pace che giungesse per una sopravvenuta grave debolezza di una Russia che apparirebbe sconfitta.

La spaccatura di un G2 conflittuale sarebbe invece meno probabile se si arrivasse a una pace che permetta alla Russia di riprendere gradualmente i rapporti con l’occidente, pianificando un diverso modello di specializzazione produttiva e commerciale ma senza l’abbraccio esclusivo della Cina.  

In ogni caso la conflittualità di un G2 non consentirebbe un equilibrio geopolitico e alimenterebbe un clima di incertezze e difficoltà economiche e commerciali causando grande instabilità delle valute e dei mercati finanziari ostacolando o distorcendo anche l’uso di innovazioni cruciali come le sopracitate Cbdc.

Una regionalizzazione cooperativa, come più sopra accennata, potrebbe invece funzionare anche se andrebbe evitato che degeneri in contrapposizioni fra paesi più e meno ricchi e sviluppati.

Si tratta forse dello scenario preferito dalla Cina la cui prospettiva potrebbe molto influenzare anche il suo comportamento diplomatico durante la guerra in Ucraina.

L’ideale per il mondo sarebbe uno scenario multipolare garantito da un notevole rafforzamento dell’azione concertativa di un organismo come il G20.

Un mondo tripolare vedrebbe la guida, più o meno esplicita, degli Stati Uniti, dell’Ue e della Cina. In questi scenari i destini del sistema finanziario e di quello produttivo e commerciale del mondo sono strettamente collegati.

Sul piano monetario, la tripolarità potrebbe accrescere il ruolo dell’euro senza ostilità nei confronti degli altri e arricchendo le opportunità disponibili per i pagamenti, i debiti, i crediti, gli investimenti di tutto il mondo.

Si può anzi pensare che l’Europa abbia oggi una speciale responsabilità nel favorire un’effettiva e benefica multipolarità. Dovrebbe sviluppare il ruolo dell’euro soprattutto accelerando con urgenza il completamento dell’unione bancaria e finanziaria che per ora subisce continui veti incrociati dai paesi membri che vogliono mantenere le regole finanziarie a livello nazionale.

Nella diplomazia mondiale l’Ue dovrebbe inoltre agire veramente unita, facendosi anche rappresentare unitariamente nelle organizzazioni chiave della cooperazione come il Fmi e l’Onu.

Purtroppo, anche su questo fronte, singoli paesi membri insistono per ora a mantenere posizioni che non fanno che indebolire la capacità dell’Europa di influire sull’evoluzione del sistema mondiale.

Non si va lontano dal vero dicendo che gli ostacoli maggiori a un ruolo più importante dell’Unione e dell’euro nel mondo non vengono dai poli concorrenti, gli Stati Uniti e la Cina, ma dall’interno di un’Europa nella quale il concetto di interesse nazionale, in un mondo molto interdipendente, è ancora gravemente frainteso.

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