È certamente curiosa la coincidenza. La crisi di governo, l’esplosione delle tensioni fra Matteo Renzi e il suo ex partito, la fatica di tenere insieme un’alleanza innaturale con il M5s e l’anniversario della fondazione del Partito comunista italiano. Proprio nei giorni in cui si ricorda la scissione di Livorno e i 130 anni dalla nascita di Antonio Gramsci, il partito che viene considerato l’erede del Pci – anche se, forse, dopo l’incredibile avvitamento sulla crisi del governo Conte dovremmo coniugare il verbo al passato – opta per una celebrazione che se vogliamo essere estremamente generosi possiamo considerare low-profile. Però, forse, non è per nulla curioso.

Il valore dell’anniversario

Le celebrazioni degli anniversari di protagonisti e momenti chiave della storia politica nazionale sono sempre un misto di paccottiglia memoriale fra “chi c’era” e in quanto tale “conosce” la “vera storia”, con rivisitazioni pop dell’armamentario ideologico e culturale in questione, associate a convegni, conferenze e mostre varie. Inevitabili sono poi le polemiche sulle varie interpretazioni da dare a eredità e ruolo storico. Il centenario del Partito comunista italiano chiaramente non ne è esente.

La tradizione politica comunista è uno dei due pilastri su cui si è fondato il partito democratico: con sé ha portato i numeri di un elettorato non più granitico come un tempo e sempre più risicato a ogni elezione, ma fedele e che in alcune zone ha dimostrato di poter digerire qualsiasi cosa, anche Pierferdinando Casini come candidato nelle proprie liste, il quale appena arrivato a Roma si è bellamente iscritto al gruppo misto. Ma questo è un altro discorso. Inoltre, per quanto ormai sfilacciata, se il Pd ha una struttura più o meno territoriale lo deve a ciò che è rimasto della macchina comunista. Oltre a questi aspetti ben noti e al di là della banale osservazione che ormai tutta la comunicazione politica del Pd viene fatta sui colori gialli e blu – e ci sarebbe tanto da dire su questa scelta – lo spettacolo dell’assenza quasi totale a livello centrale di momenti di riflessione sul Pci credo apra una questione politica e storica: quanto resta del Pci dentro il Pd?

Ci sono infiniti modi per riflettere sulla storia del più grande partito comunista occidentale: lasciando a parte riverberi inutilmente celebrativi che si trovano qua e là nel web, ci si può concentrare sulle occasioni mancate e i ritardi. E va ricordato che sono tanti. Qui si innescano i vari “miti” legati al Pci fra cui spiccano, per citarne alcuni, le ingerenze americane nelle elezioni del 1948 o i finanziamenti sovietici, l’incontro mancato fra Berlinguer e Moro che come una sorta di mito palingentico per legittimare qualsiasi alleanza fra partiti con culture politiche democratiche profondamente diverse che riemerge a ogni crisi politica (anche per il governo Conte II se ricordate bene).

E ancora, la doppiezza di Togliatti e l’amnistia agli ex fascisti o il predominio degli intellettuali comunisti nella cultura italiana, specialmente nei giornali e nelle case editrici. Sia chiaro, non sono invenzioni polemiche queste, ma ridurre la complessità del Pci e quello che ha rappresentato per cittadini ed elettori ma, soprattutto, per le istituzioni democratiche al solo e mero elemento esterno è sterile e consolatorio.

Il particolarismo italiano

Si può al contrario partire da considerazioni di lungo periodo sulla frattura di Livorno e la distanza che quella scissione ha creato fra la “via italiana al socialismo” e le altre esperienze socialiste europee. E qui si inserisce un altro mito della tradizione comunista: il riformismo comunista e il modello emiliano. Da questa prospettiva lo sguardo si ampia e non si rischia di intestardirsi sulle contraddizioni interne – e ce ne erano tantissime – ma piuttosto sulle traiettorie di successo: l’istituzionalizzazione della repubblica italiana nel quadro del parlamentarismo, la centralità del lavoro e dei diritti come legame democratico, il nesso fra democrazia e progetto europeo, la partecipazione politica e la costruzione di una identità e una cultura marcate.

Visto in questo perimetro, il riformismo comunista che promuove la creazione delle prime strutture di welfare locale non sembra molto diverso dal governo di Clement Attlee che nel 1945 stravince le elezioni nel Regno Unito e crea il primo sistema sanitario nazionale gratuito. Oppure la Conferenza regionale del Pci dell’Emilia-Romagna del 1959 che si confronta e si mette alla guida delle trasformazioni sociali spinte dal boom economico in un modo simile, permettetemi qui la semplificazione, con la svolta che l’Spd fa nello stesso anno al Congresso di Bad Godesberg. Anche su queste basi comuni si spiega, per esempio, la fascinazione che la sinistra inglese ed americana fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Novecento mostrava nei confronti del comunismo italiano e in particolare emiliano.

Il libro su cui il partito laburista ha provato a contrastare l’egemonia di Margaret Thatcher e ha costruito le vittorie nelle elezioni locali di Londra, Liverpool o Manchester non a caso si intitolava Red Bologna e illustrava il successo di una città governata dal Pci e guidata da un intellettuale comunista, Renato Zangheri. Il riformismo comunista emiliano però non è mai arrivato a Roma. O meglio, sebbene in parte anche questa sia una forzatura della storia del Pci, è più corretto affermare che quando riuscì a varcare gli appennini fu troppo tardi. Ormai diluito nel sodalizio fra i riformismi cattolico e socialista, e cioè sinistra Dc e ciò che restava del Pci, quando la tradizione comunista si scioglie nel Pd da un certo punto di vista è fuori tempo massimo. Interrogarsi su questo ritardo forse aiuterebbe a capire la crisi di oggi, riportandoci insomma alla domanda iniziale.

La natura federativa del Partito democratico, appunto l’unione delle tradizioni “riformiste italiane”, ha anch’essa origine in Emilia e si nutre dello straordinario clima intellettuale che si respirava fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta a Bologna. Se si vuole infatti trovare una genesi intellettuale del Pd la si deve ancora cercare lì, ma non in via Barberia, la sede storica della federazione del partito comunista, ma in via Galliera e via Santo Stefano dove in quegli anni si incontravano gli intellettuali del gruppo del Mulino e dell’Istituto Cattaneo e sulle pagine della loro rivista. Una visione della politica visionaria e coraggiosa in origine che si appoggiava sulla tesi del “bipartitismo imperfetto” come blocco insormontabile della democrazia italiana, resa famosa dal libro di Giorgio Galli ma elaborata e discussa a più voci nel gruppo bolognese.

Una tesi novecentesca che rifletteva il contesto della guerra fredda che la circondava, pensata dunque nel secolo scorso ma che si compie quasi 20 anni dopo la caduta del muro di Berlino con la fondazione del Pd. Dentro il Pd dunque la tradizione comunista da un certo punto di vista arriva oltre che tardi, puntando esclusivamente su presunte capacità federative taumaturgiche, rifugiandosi in una sorta di patriottismo localistico e autoreferenziale a officiare le buone amministrazioni regionali ma abdicando alla funzione politica di creare una visione sul futuro; ciò che una volta avrebbero definito e senza vergogna egemonia politica. Chiedersi quindi che cosa avrebbero fatto Togliatti o Berlinguer di fronte alla crisi del governo Conte o come avrebbero trattato con Renzi non serve a nulla. Forse sarebbe meglio ricominciare a riflettere su cosa avrebbero fatto per formare i quadri e strutturare il partito così da evitare di votare la diminuzione del numero dei parlamentari ancor prima di sapere con quale legge elettorale questi saranno votati o insistere su un nome come quello di Conte alle consultazioni. Idee e programmi politici di altri. Tant’è.

 

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