«I partiti politici hanno creato la democrazia e la democrazia moderna non è immaginabile se non in termini di partiti». Questa generalizzazione, scritta nel 1942 dal professore di Scienza politica Elmer E. Schattschneider, contiene una precisa descrizione storica e una implicita previsione preoccupante.

Che cosa succede quando scompaiono i partiti? Troppo impegnati nella ricerca di un presidente della Repubblica che in qualche modo giovi alle loro sorti né magnifiche né progressive, troppo interessati ad una legge elettorale che minimizzi i rischi della competizione, troppo affannati nella costruzione di un “centro” stabilizzatore, dirigenti politici e commentatori sembrano essersi dimenticati che le difficoltà e i problemi di funzionamento del sistema politico italiano sono iniziati con il, peraltro meritato, crollo del sistema dei partiti nel periodo 1992-1994.

Oggi c’è un unico protagonista della vita politica italiana che mantiene l’etichetta partito: il Partito democratico. Tutti gli altri hanno deciso che è meglio farne a meno visto il discredito che i partiti hanno agli occhi degli italiani.

In un’intervista Giuseppe Conte ha assicurato che il Movimento 5 Stelle che intende costruire «non sarà un partito anche perché i partiti sono in crisi e tendono loro stessi a farsi movimenti«. Lui mira a trovare «le persone giuste e una sintesi politica convincente e quotidiana» (Corriere della Sera, 30 novembre).

Fermo restando che in Italia oggi al posto dei partiti non esistono affatto movimenti, ma associazioni personalistiche, i due compiti che Conte ritiene essenziali sono caratterizzanti, non solo storicamente, ma in tutte le democrazie contemporanee, proprio dei partiti politici.

Più o meno indeboliti rispetto ai trenta e più anni “gloriosi” seguiti alla seconda guerra mondiale, i partiti esistono in tutte le democrazie occidentali (e hanno accompagnato la democratizzazione di molti paesi nel post-1989).

Per reclutare le “persone giuste” è indispensabile che esista un’organizzazione sul territorio che le individui e le attragga.

Per fare “sintesi politica convincente e quotidiana” bisogna che vi siano luoghi dove un certo numero di persone si riuniscono, discutono, decidono e comunicano le loro decisioni cercando di raggiungere un più vasto pubblico.

Sono compiti che i partiti come li abbiamo conosciuti in Italia svolgevano, in maniera più meno efficace. Sapevano quei partiti offrire alternative programmatiche e elettorali. Costruivano coalizioni che andavano al governo con il loro personale, politico, praticamente mai tecnico/cratico.

Nel 1990 i partiti della tanto criticata “Prima Repubblica” avevano fatto dell’Italia la quinta potenza industriale al mondo.

Non tutto andava al meglio, ma l’esistenza dei partiti e la loro competizione erano accompagnate anche da notevoli percentuali di partecipazione elettorale.

Non sarà il migliore dei presidenti della Repubblica a fare (ri)nascere organizzazioni partitiche decenti.

Nessun più o meno ingente premio in seggi potenzierà l’organizzazione dei vincenti. Nessuna riforma dei regolamenti impedirà il piccolo o grande trasformismo dei parlamentari.

Certo, ciascuno di questi eventi e riforme se andasse per il meglio contribuirebbe alla comparsa di strutture simili ai partiti.

Tuttavia, se nessuno degli dirigenti politici accetta la sfida e si pone esplicitamente l’arduo compito di ristrutturazione partitica, la prossima legislatura continuerà ad essere caratterizzata dai problemi che abbiamo già sperimentato nell’ultimo quarto di secolo.

© Riproduzione riservata