Roma, esterno giorno. Lo incrocio e mi fissa mentre mi viene incontro, accenno un saluto, non lo ricambia, cioè non subito, perché ha bisogno di dirmelo senza ghirigori. «A Cuperlo state ancora a parla’ de froci, ma n’do vivete!». Credo di avere la risposta, cioè la so dire anche bene. Che non ci sono diritti di prima e seconda serie e qualcosa riesco ad abbozzare, ma capisco che non basta, cioè neppure mi ascolta, parla sempre lui, è una diga aperta. «C’ho mi fijo a casa da due anni e che je dico?». Allora provo a spostarmi sulla Naspi, accenno la riforma degli ammortizzatori, niente. Come se le risposte, ammesso siano credibili, scivolino via scalzate da un senso d’impotenza o delusione. Saranno in tutto una decina di minuti, anche meno. Poi saluta, saluto, e fine.

Da una parte o dall’altra

Penso che abbia ragione Letta: da una parte o dall’altra. La posta nel 2023 è questa. Messa così la campagna su una sinistra che si occuperebbe solo di diritti civili lasciando il lavoro, i licenziamenti, la precarietà appaltati ad altri è funzionale a chi vuole la partita già persa. Il punto è che per smentire quella tesi serve poter dire in cosa consiste la nostra alternativa. Perché abbiamo un modo solo per evitare all’Italia di trovarsi al fianco di Orbán e di quella destra lì ed è attrezzare un’idea di paese così forte da convincere un pezzo di società che senza quell’impianto l’Italia semplicemente non ce la fa.

Se vuoi fare questo hai bisogno di un gran bel programma, ma da solo non ti basta. Devi chiarire le tue alleanze dal basso e dall’alto, ma senza che tutto si esaurisca in una somma di sigle. Dirlo non è gettare la palla lunga. Le svolte vere, prima e dopo la nascita della Repubblica, hanno sempre avuto questo impatto. E a chi dice che conta la concretezza delle risposte, bisogna replicare che è vero, ma da che mondo è mondo quella materialità si sposa con la speranza che riesci a trasmettere sul tempo prossimo. Si lega coi principi a fondamento di una nazione scossa e divisa: tra nord e sud, chi è garantito e chi no, tra donne e uomini, italiani e quanti non lo sono ancora. E pure tra gli antifascisti e chi non lo è perché non lo è mai stato e non lo sarà domani. E allora muoviamo da qui, fosse solo perché i numeri qualcosa contano.

Nei sondaggi Salvini e Meloni pesano per poco più del 40 per cento. Nella nostra metà campo il Movimento 5 stelle prova a rialzarsi sotto la guida di Giuseppe Conte mentre il Pd regge l’urto da destra, restando però attorno al 20 per cento. Un po’ sopra l’esito disastroso delle ultime elezioni, ma sotto la soglia utile se tra un anno, massimo due, quella destra si ha l’ambizione di sorpassarla nelle urne. Rimanere fermi alla fotografia di ora vuol dire non avere chance per competere con una destra convinta di avere già vinto.

Ribaltare lo schema

Di qui il compito dei prossimi mesi: ribaltare questo schema. Rendere possibile ciò che al momento appare complicato e cioè ricondurre quella destra alle dimensioni che, tolto il ventennio più buio, ha sempre avuto: essere una minoranza. Detto del programma e delle alleanze per tagliare quel traguardo serve una “politica”. Come a suo tempo avvenne con l’Ulivo. Quella fu una risposta alla sconfitta più severa della sinistra negli anni Novanta e Zero. Una nuova coalizione di forze e una solida alleanza sociale che, fondendosi, riuscirono a scuotere equilibri, rapporti di forza. La coalizione capì che si doveva ricomporre la sinistra, il cattolicesimo progressista, lo spirito azionista, assieme all’ambientalismo e a una spinta di libertà dai bisogni e per nuovi diritti. L’alleanza sociale rifondò un patto tra gli interessi del lavoro, dell’impresa sana, dei terminali della cultura, a partire da scuola e università. Il tutto sotto l’ombrello di personalità autorevoli e col sostegno del più grande gruppo editoriale che di quelle culture allora era il riferimento riconosciuto. La prima vittoria dell’Ulivo fu anche e soprattutto l’esito di quella iniziativa che, non a caso dieci anni più tardi, gettò le basi del Partito democratico.

Oggi se vuole tornare a vincere la sinistra ha bisogno di un’operazione della stessa ambizione e portata. A dirla tutta, penso che senza questo, o con meno di questo, la strada possa farsi terribilmente in salita. Credo sarebbe anche l’unico modo per riscattare energie oggi sospese perché disincantate e deluse dai comportamenti della prima forza della sinistra nell’arco dell’ultimo decennio. Non degli ultimi sei mesi: dell’ultimo decennio. È vero: quasi nessuno tra noi può dire “io non c’ero”. Ma sarebbe un errore sottovalutare i guasti che la stagione dell’articolo 18 buttato nel cestino, dell’insulto ai sindacati, della povertà come una colpa perché il mondo d’improvviso era animato solo di start up, dicevo sarebbe un errore non vedere le scorie che tutto questo ha seminato dietro a sé.

Tre shock

D’altra parte uno spartiacque è questo: chiudere una pagina, anche lunga, e se si è in grado di farlo, aprirne un’altra. Noi alle spalle abbiamo tre shock. L’11 settembre. La crisi del 2008. Il Covid. Tre eventi che hanno cambiato il mondo. Il primo colpiva la potenza americana e voleva sostituire l’ordine della geopolitica. Il secondo ha spazzato il mito sulla perfezione del libero mercato e alterato l’assetto dell’economia. Il terzo, lo spiega bene Fareed Zakaria, è il peggiore perché avrà conseguenze politiche, ma anche sociali, emotive: la paura, l’incertezza sul domani. Il tema è come ne usciremo. Se con più libertà, cooperazione, fiducia nel sapere. O subendo l’aggressione al primato critico della scienza. Basterebbe questo a dire del compito per una sinistra che voglia entrare da sveglia in un tempo nuovo mettendo al centro i diritti umani, sempre, ovunque. E con essi il lavoro e la salute come beni che non potremo mai più disunire. E ancora, un tablet e un tetto per ogni ragazzo e ragazza perché sono l’accesso alla cittadinanza qualunque sia il codice postale dove vivi e la famiglia che ti ha fatto nascere. E infine i bisogni e l’autonomia di ognuno perché il mondo è fatto da talenti, e meno male, ma è fatto anche da chi alla vita chiede in primo luogo affetti, aiuto, tutele. Perché non può alzarsi dalla sedia o dal letto, o perché parla solo muovendo gli occhi, o perché a cinquant’anni si scopre licenziato via WhatsApp. O solo perché vorrebbe andarsene senza soffrire. E alla società, alla politica, non chiede tolleranza, ma dignità.

Qualche giorno fa alla cerimonia della Scuola superiore Normale, a Pisa, tre giovani diplomate hanno tenuto un discorso semplice e diretto. Sono partite dai numeri. In dieci anni le borse di dottorato sono calate del 47 per cento, del 56 nel sud. Nello stesso periodo i ricercatori delle università statali sono scesi del 14 per cento. Il 91 per cento degli assegnisti di ricerca sarà escluso dalle università italiane. Aggiungevano la precarietà degli impieghi: nelle mense, nei collegi, nelle biblioteche. Per chiedersi alla fine, da eccellenze privilegiate quali sono state: «Ma di quali eccellenze parliamo in mezzo a queste macerie?». A quel punto congedandosi con la domanda più severa: perché il mondo accademico ha smesso di esporsi in un confronto pubblico che chiede anche il coraggio di confliggere? Non sarà stato un discorso tipico della Next generation Eu. Ma l’ho trovato uno splendido discorso per la Next generation left.

C’è bisogno di essere radicali nei principi e concreti nelle soluzioni, che poi è quanto con un pezzo del Pd da mesi, e da sinistra, ci candidiamo a fare. Non dico sia la rivoluzione, ma di questi tempi, almeno a me, pare la sola strada da imboccare prima che si faccia tardi.

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