Inesorabilmente tra pochi giorni qualcuno chiederà in quanti sia sicuro sedersi a tavola per il pranzo di Natale e i media rimbalzeranno la domanda chiedendo un parere a esperti o sedicenti tali, se non direttamente al Comitato scientifico del ministero della Salute che se la caverà con risposte diplomatiche o imbarazzate. Seguiranno accuse al governo di seminare l’incertezza o di sabotare le salumerie e le pasticcerie, mentre altri sosterranno con uguale veemenza che con la salute non si scherza e che un altro Natale austero non sarà una tragedia per nessuno.

Tagliamo dunque subito la testa al toro. L’unico modo per non rischiare di prendersi il Covid sarà quello di sedersi a tavola da soli. Ovviamente il rischio sarà molto basso anche se a mangiare insieme sarà una coppia di conviventi trivaccinati, mentre qualche rischio in più si correrà se a tavola ci saranno quattro persone vaccinate solo due volte e salirà ancora di molto se si sarà in otto tra i quali un No-vax e due o tre bambini sotto i 12 anni.

Apparirà chiaro che il vero dilemma non è dove stia il rischio zero, ma piuttosto quale sia il rischio che siamo disposti a correre. Quanti sono i morti giornalieri di Covid che siamo disposti ad accettare pur di evitare un lockdown generalizzato e una nuova paralisi delle attività lavorative?

Poche sere fa, a un membro del Comitato scientifico che ricordava come ai primi di dicembre del 2020 i morti giornalieri per Covid fossero più di 700 mentre ora sono solo 70, il giornalista televisivo obiettava: «Perché? 70 morti al giorno (25mila all’anno) le sembrano pochi?». Certo che no. Ma se sono tanti, quale potrebbe essere un numero accettabile? Se zero significasse un lockdown totale a tempo indefinito, quale rischio saremmo disposti a correre per condurre una vita quasi normale? Sarà utile ricordare che in Italia i morti di influenza in un anno variano tra i 5mila e i 10mila, quelli da incidente stradale sono circa 3mila, quelli da infortunio sul lavoro oltre mille. Ma anche che le morti attribuibili al fumo di sigaretta sono 90mila e quelle attribuibili all’alcool più di 15mila.

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Non sembra però di percepire in giro e sui media una grande mobilitazione. La realtà è che in molti casi esiste una discrepanza tra la percezione soggettiva del rischio e la valutazione oggettiva e che questo dipende da fattori quali il controllo che si stima (spesso erroneamente) di poter esercitare sugli eventi rischiosi, la volontarietà della scelta di esporsi al rischio, la gravità delle possibili conseguenze.

In altre parole, ogni volta che cerchiamo di valutare l’entità di un rischio, raramente seguiamo la logica della razionalità e quasi mai siamo in grado di fare una stima probabilistica, ma ragioniamo invece prevalentemente in termini emotivi, facendo riferimento a quanto riteniamo di poter essere personalmente esposti e a quanto ci costerebbe (sempre individualmente) ridurre il rischio per l’intera comunità dei nostri simili.

Per questa ragione spesso reagiamo malamente alle valutazioni degli esperti che, anche se sono basate su stime matematiche della probabilità di malattia, di perdita di vite umane o di risorse economiche, ci appaiono fredde, impositive, lontane dai nostri valori e dal nostro desiderio di poter condurre una vita il più possibile libera.

Questo spiega anche perché sia così difficile affrontare altri problemi gravidi di rischi, come per esempio il riscaldamento globale e l’inquinamento ambientale. È facile prevedere che quando i problemi avranno attraversato la soglia di casa nostra si leveranno alte voci per dare la colpa a chi «avrebbe dovuto pensarci prima».

Il calcolo dei rischi è già stato fatto, gli esperti hanno parlato sempre più chiaramente in tutte le sedi internazionali. Il problema sta nelle orecchie di chi ascolta. A proposito, quanti parenti avete invitato per il pranzo di Natale?

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