Ancora una volta è utile partire dai dati. Il 15 dicembre la Corea del sud ha raggiunto il picco della sua quarta ondata, quella della variante Omicron, registrando 7.843 contagi in tutto il paese.

Alla fine dell’anno, il 31 dicembre, i nuovi infettati erano già calati a 4.871, certificando un trend in decrescita che aveva portato ai 3.862 contagi di tre giorni prima. Discesa confermata nei primi giorni del 2022: il 4 gennaio i nuovi contagi erano 3019 e già il giorno prima si era scavallata la fatidica soglia per cui i guariti diventano più dei nuovi contagiati.

Il picco appare, dunque, alle spalle, e inizia la discesa del numero dei casi attivi nel paese, che si avviano a restare al di sotto dei 100mila su 50 milioni di abitanti.

Un numero che rende la situazione coreana confrontabile con quella italiana. Al caso Corea bisognerebbe, come quasi sempre, affiancare quelli di Taiwan (picco di 41 nuovi contagi il 31 dicembre in un paese che ha comunque 24 milioni di abitanti), Hong Kong (39 infetti il 4 gennaio, su una popolazione di 7,5 milioni di persone), Giappone (al 4 gennaio 783 nuovi casi, trend in crescita, ma imparagonabile con i nostri).

Tra questi, ci piaccia o meno, va annoverata anche, se non soprattutto, la Cina, che continua con la sua strategia «zero Covid», rispondendo con una prontezza sorprendente all’insorgere anche di un solo caso.

Divisi dalla tecnologia

Insomma, Omicron, Delta, o ceppo originario lo scenario che abbiamo davanti è sempre lo stesso: oriente e occidente appaiono due mondi diversi rispetto alla pandemia che ci perseguita da due anni. Lo abbiamo già detto, ridurre un fenomeno così complesso a una sola causa è assai complicato. Sicuramente un ruolo lo sta giocando il ritardo tecnologico, effetto di anni e anni di mancati investimenti in ricerca, se non direttamente di veri e propri tagli.

Negli ultimissimi anni il sud-est asiatico ha scalato le classifiche avvicinandosi sempre più ai vertici, va detto, ancora occupati dai paesi occidentali (la Svizzera è stabile in testa alla classifica dal 2017). Il Global Innovation Index (Gii), con cui si misura l’impatto innovativo di un paese, ha certificato per il 2021 quanto osservato negli anni pre crisi, portando nella top 15 Corea del Sud (quinto), Singapore (ottavo), Cina (12esimo), Giappone (13esimo) e Hong Kong (14esimo).

«La pandemia ha accelerato lo spostamento geografico a lungo termine delle attività di innovazione verso l’Asia, anche se il nord America e l’Europa continuano ad ospitare alcuni dei principali innovatori mondiali», si legge nel report 2021. Se si guarda ai soli investimenti in ricerca e sviluppo, il confronto appare più impietoso.

La Corea del Sud, solo per citare lo stato da cui siamo partiti, investe circa il 4,6 per cento del proprio Pil contro poco più del 2 per cento della media Ue trainata dalla Germania. Quanto queste cifre abbiano inciso sull’ormai proverbiale sistema di tracciamento coreano e sulla più generale capacità di contenimento del virus è storia tutta da scrivere.

Sarebbe auspicabile un tentativo in tal senso da parte degli organi di informazione nostrani, che appaiono più inclini a concentrarsi su note folkloristiche come l’uomo che si va a vaccinare col braccio finto, o annunci generici («Il Covid si sta raffreddorizzando») in contrasto con qualsivoglia approccio scientifico-sperimentale che per natura rifiuta formule universali, solitamente smentite dalla osservazioni successive. Ma la filosofia, si sa, non sa resistere alla ricerca dell’archè, quel principio in grado di spiegare la varietà e complessità di un fenomeno.

La frattura occidentale

AP Photo/Yuki Iwamura

Se, dunque, constatato, per ora, con le cifre asiatiche che persino Omicron è confinabile, si dovesse indicare il fondamento dell’attuale crisi pandemica, io userei la parola «schismogenesi». Termine coniato dall’antropologo Gregory Bateson che indica la frattura interna a un sistema. Ecco, i sistemi politici occidentali, sottoposti da anni e anni a una crescente polarizzazione, sono andati in schismogenesi.

Una frattura che ha bloccato il processo decisionale, condannando i governi a inseguire i fenomeni piuttosto che prevenirli. La crisi Covid-19, dove abbiamo visto contrapporsi i consueti schieramenti degli ultimi dieci anni, sta mostrando nel modo più duro la crisi delle democrazie occidentali, talmente lacerate da non avere più direzione. Crisi globali nel XXI secolo se ne sono ormai succedute diverse, ma quando ci si divide persino davanti all’oggettività di un virus il masso sembra davvero rotolato a valle. Miglior propaganda al Partito popolare cinese non potevamo fare.

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