Si accende la polemica sul decreto legge del governo contro le “delocalizzazioni”. Se ai sindacati dei lavoratori il dl piace, a quello datoriale, Confindustria, pare solo demagogia; con quei forti oneri sulle imprese, è solo un regalo ai paesi concorrenti, pronti ad accogliere chi fuggirà per non vedere i cavalli dei cosacchi abbeverarsi alle fontane di san Pietro. È il pavloviano riflesso di Confindustria davanti a ogni norma, anche assennata, che interferisca con la gestione aziendale, ma qualche ragione di preoccuparsi ce l’ha.

Se un’impresa con oltre 250 dipendenti vuol chiudere un impianto senza che questo sia in crisi, deve prima informarne governo e sindacati, citando le ragioni della chiusura, la data prevista e i profili delle persone coinvolte.

Entro i tre mesi successivi, deve inviare al ministero dello Sviluppo economico (Mise) un piano che indichi come intende proteggere l’occupazione, gestire gli esuberi, quali siano le prospettive di cessione o i progetti di riconversione dell’impianto, infine i tempi per realizzare le varie fasi.

Il Mise lo approverà ove «risultino sufficienti garanzie di salvaguardia dei livelli occupazionali o di rapida cessione dei compendi aziendali». Senza tale approvazione, che in molti casi potrebbe essere negata, l’impresa non può procedere; se invece chiude l’impianto, o non mantiene gli impegni assunti, i suoi pagamenti per la Naspi van moltiplicati per dieci, e potrà essere esclusa da contributi pubblici futuri.

Modello francese

Davanti alle critiche, il ministro del Lavoro Andrea Orlando e la sottosegretaria al Mise Alessandra Todde, cui si deve il testo circolante, replicano trattarsi di una bozza (scritta mica tanto bene). Il testo richiama i contenuti della francese Loi Florange e, come questa, difficilmente potrà avere effetti concreti se rispetterà il diritto dell’impresa a decidere, alla fine, dove e con quale assetto operare; se così non fosse, il decreti davvero istituirebbe forti vincoli alle imprese oltre certe dimensioni (e la soglia di 250 dipendenti potrebbe essere ridotta), non già alle sole “multinazionali”.

Più che la norma conta anche, forse soprattutto, come è amministrata. In Germania, ad esempio, chiudere impianti non è facile, ma le diverse esigenze di lavoratori e imprese sono là valutate con realismo e sufficiente flessibilità.

Il decreto riguarda solo le chiusure di impianti «per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza»; vedremo come tale condizione sarà interpretata, ma la chiusura di un impianto deve essere consentita anche a chi non sia sull’orlo dell’insolvenza.

È dubbio che, mancando tale condizione, lo Stato abbia titolo ad appioppargli una tassa, decisa poi da un ufficio amministrativo. Un conto è revocare contributi pubblici dati per piani non realizzati, negarli a chi infranga i patti, vietare licenziamenti via WhatsApp o cercare soluzioni alternative alla chiusura, ben altro sbarrare la porta d’uscita. Il decreto andrebbe rivisto in tal senso ma, una volta riconosciute le ragioni di Confindustria, lo sguardo deve ampliarsi agli effetti delle scelte di tante imprese.

Forza Italia e altri invocano le politiche industriali, tanto mitiche ora quanto prima aborrite, ma i mali di quelle imprese vengono da lontano; in troppe sembrano solo ricercare il minor costo, anziché il maggior valore aggiunto.

Sbarrare l’uscita

Alle imprese che van bene non serve delocalizzare, esse producono sia in Italia sia all’estero, tenendo strette le funzioni di maggior pregio; è così che l’industria tedesca dell’auto riesce a fatturare, ai “suoi” costi, ore lavorate altrove, a costi inferiori. Abbiamo così pochi laureati e tecnici preparati perché alle imprese non ne servono poi tanti.

Se sbarriamo l’uscita, anche chi vorrebbe entrare ci penserà due volte, e se siamo il paese dell’Eurozona cresciuto meno nell’ultimo ventennio, non è perché mancava il decreto sulle delocalizzazioni.

Come spesso accade, i problemi veri restano ignorati sullo sfondo, e la lotta politica si fissa sulle conseguenze, gli epifenomeni. Come fossimo nella caverna di Platone, litighiamo strologando sulle ombre che i movimenti reali al di fuori proiettano sui muri interni. Non è errore ma peggio, è inganno, i contendenti sanno bene che quella sul decreto è solo un’altra polemica di cartapesta.

Se il paese non cresce è perché non ci sono abbastanza investimenti, pubblici e privati. Ora, grazie al Next Generation Eu, i primi finalmente ripartiranno e faremo le sempre invocate, e mai realizzate, riforme abilitanti. A quel punto il solo ingrediente che manca al menu dello sviluppo sarà l’investimento privato e la realtà sarà alfine chiara a tutti.

Perciò Confindustria mette le mani avanti e lamenta che il Pnrr non coinvolga abbastanza i privati: se questi latiteranno sarà perché mancheranno i nuovi incentivi pubblici che chiede.

Non possiamo costringere le imprese alle aggregazioni loro sgradite ma che, sole, consentirebbero a molte di raggiungere la taglia necessaria a sostenere gli investimenti; evitiamo però di recitare davanti ai cittadini un’altra pochade.

Il paese non cresce perché troppe delle sue imprese non scommettono sul loro futuro, in cui evidentemente non credono, o non tanto da abbandonare il tabù del controllo familiare, sul capitale e sul management.

Non sarà il DL sulle delocalizzazioni a trattenere in Italia i giovani qualificati che, per difetto di occasioni di sviluppo, se ne devono andare; anzi, potrebbe anche avere l’effetto contrario.

© Riproduzione riservata