Si consuma in questi giorni l’ennesima puntata del dramma dell’ex Ilva, ora controllata da Acciaierie d’Italia (38 per cento pubblica, 62 per cento Arcelor Mittal): nazionalizzare o perdere una delle poche filiere di industria pesante rimaste in Italia?

Mentre il governo Meloni studia la risposta, è utile notare che nella vicenda dell’ex Ilva, oggi presieduta da Franco Bernabé, si intravede in filigrana il dramma che l’intera industria italiana si appresta ad affrontare.

Prima del Covid, l’Ilva pagava una bolletta annua dell’energia di circa 180 milioni di euro. Oggi, a parità di perimetro e attività, di 1,4 miliardi di euro, che sono tantissimi anche per una azienda che fattura circa 3,5 miliardi.

Il costo è stato in gran parte assorbito dalle casse pubbliche, attraverso il meccanismo dei crediti di imposta, ma i correttivi temporanei lasciano aperta la grande domanda: l’industria italiana può sopravvivere al 2023?

Prima della guerra in Ucraina, l’Unione europea importava dalla Russia 140 miliardi di metri cubi di gas ogni anno, più 15 di Gnl (gas naturale liquefatto). A fine 2022, le importazioni dell’anno risulteranno circa 60 miliardi.

Gli 80 mancanti (per arrivare a 140) li abbiamo presi in parte aumentando la capacità di altri tubi per 10 miliardi (dalla Norvegia, dall’Algeria, dall’Azerbaijan via Tap), 25 miliardi dal Gnl, che viaggia via nave e quindi si può comprare su un mercato globale.

 Gli altri 45 miliardi di metri cubi di gas li abbiamo risparmiati: 25 miliardi grazie alla crisi climatica o comunque alle temperature miti dell’autunno, altri 20 li hanno risparmiati le imprese che hanno ridotto i consumi e congelato le produzioni, mentre le famiglie hanno continuato a consumare come prima.

E nel 2023? La Russia darà all’Europa soltanto 20 miliardi di metri cubi circa in un anno, dai gasdotti possiamo sperare di ottenerne 15, forse l’importazione di Gnl potrebbe arrivare a 30 miliardi di metri cubi, ma molto dipende dalla Cina.

Nel 2022 l’Unione europea ha avuto a disposizione del Gnl aggiuntivo soltanto perché i cinesi hanno ridotto i loro consumi di 20 miliardi (è stato il primo anno in cui è successo), essenzialmente perché l’economia è stata fermata dalla strategia Covid zero. Come dimostrano le proteste di questi giorni contro il leader Xi Jinping, non è uno scenario destinato a durare.

Se ipotizziamo che le imprese continuino a risparmiare i 45 miliardi del 2022 e che le temperature si confermino miti, mancano comunque altri 40-45 miliardi di metri cubi che dovranno per forza arrivare dal risparmio energetico, stavolta scaricato in gran parte sulle famiglie. Sotto forma di razionamento (la versione estesa di quanto sperimentato quest’anno con le accensioni dei termosifoni posticipate) o attraverso una riduzione della domanda dovuta ai prezzi alti.

Se poi ci fosse un febbraio 2023 rigido – è il mese critico – con un picco nei consumi, si porrebbe poi la questione di come riempire gli stoccaggi: proprio il tentativo contemporaneo dei vari paesi europei di accumulare scorte ha spinto ai massimi i prezzi del gas, questa estate.

In tutta Europa si ragiona sulle opzioni disponibili: tenere aperte centrali nucleari in dismissione, riaccendere quelle a carbone, soluzioni concertate con gli Stati Uniti che hanno prezzi più bassi. Nessun intervento è risolutivo, tutti sono utili.

Prima o poi la guerra in Ucraina finirà e il gas russo tornerà sul mercato a prezzi bassissimi, la domanda è se ci sarà ancora una industria europea bisognosa di consumarlo quando questo succederà.

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