La cronaca incalza. Giuseppe Conte, il premier uscente, ancora deve scuotere la campanella di fianco a Mario Draghi e già viene narrato come un questuante senese rimbrottato a stretto giro da chi, sia detto sine ira ac studio, non vanta titoli per farlo. L’impressione è che ogni cosa si consumi a velocità superiore.

Allora ti viene il dubbio, solo quello, che pure la cronaca, volendo trovarle, matura su radici ben piantate in terra. Non come biografia dei singoli, è chiaro, ma nel prodursi e riproporsi di malanni, magagne, a ben scrutare incardinate lontano.

Così, in ore concitate di consultazioni, programmi e conversioni, capita di ripensare a un saggio di alcuni anni fa (Alberto Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta, Einaudi 2019) perché ripreso ora aiuta a rendere meno buia la scena, anche se in effetti parecchie cose farebbero supporre l’opposto.

Come salvare l’Italia

Partiamo dall’ovvio, siamo figli del nostro tempo, ma in fondo sempre nipoti della nostra storia. In quella storia, nobile tragica e grandiosa, Machiavelli è ritenuto, non a torto, il fondatore della teoria politica moderna. Scienza nel caso suo non solo del sapere, ma della volontà e della speranza. Nulla è più politico di questo.

Ora, secondo il Genio fiorentino per salvare l’Italia non bastavano nemmeno a quel tempo gli strumenti della tradizione: servivano altre regole generali e da quella premessa sarebbe derivata una semina potente, l’idea della bellezza italica quale morbosa attrazione per ogni occupante forestiero.

L’opera caposaldo, Il Principe, Machiavelli la elabora, imposta e redige attorno ai quarant’anni, quarantatré a essere precisi.

Alle spalle la discesa di Carlo VIII mentre il Sacco di Roma seguirà nel 1527. Consuntivo della disfatta italiana, cioè di un’Italia allora e per lungo tempo inesistente in quanto Stato.

Dunque il libro è ispirato a un bisogno: dinanzi a una situazione catastrofica servono un principe nuovo e un nuovo stato. Ma quanto durerà la disfatta? Per Asor Rosa più o meno cinque secoli, la bellezza di cinquecento anni.

Nei primi trecentoquaranta, vale a dire sino a Porta Pia, l’Italia rimarrà divisa tra l’occupazione spagnola, le repubbliche di Genova e Venezia, i ducati di Parma, Piacenza, gli Estensi, i Gonzaga a Mantova, lo Stato pontificio, e a seguire in una staffetta storica gli Asburgo a togliere potere alla Spagna, Napoli e Sicilia ai Borboni, la millenaria repubblica veneziana sotto il tallone austriaco in una disunione perenne destinata a colmare decine di scaffali.

Ma che tipo di disunione sarà? Una disunione orizzontale (tra Stato e Stato, territorio e territorio) e verticale (con forme diverse nel concepire il paese, la sua unità, i suoi stessi destini).

La combinazione dei due processi determina una “cataclismatica” assenza di coesione sociale, culturale, ideale, persino psicologica e caratteriale.

Uscire dalla morta gora

In questa vicenda plurisecolare l’Italia da quella “morta gora” fuoriesce per due volte. Lo fa con le pagine epiche del percorso unitario, il Risorgimento e la Resistenza anche se con natura e caratteri diversi.

Il Risorgimento vede l’irrompere in scena di un «principe nuovo, istituzionale e guerriero». La dinastia Savoia con armi proprie. Cavour, principe politico e diplomatico. Garibaldi, principe audace e guerrigliero.

L’epopea risorgimentale abbatte la disunione orizzontale, unificando quanto la storia aveva tenuto separato, e in parte pure la verticale. In parte perché furono compresenti scuole di pensiero distinte sul futuro da offrire alla penisola ricomposta e agli italiani da comporre. Ciò che quella stagione evidenzia e conferma è un’intuizione del Segretario fiorentino, il non esistere movimento storico senza una spinta concorde dei soggetti culturali e civili che ne siano protagonisti.

Chiosa Asor Rosa come ogni fenomeno della storia diventa significativo se non rimane in superficie, ma penetra per li rami a innervare una coscienza collettiva.

Diciamo che a quel punto il tema della prospettiva unitaria si propone come saldatura delle due disunioni storiche, ma in quanto tale abbisogna di una revisione dei fondamenti dell’identità italiana, da lì il capitolo della riforma intellettuale e morale evocata con lingue diverse da De Sanctis, Croce, Gentile, ovviamente Gramsci, ma pure Mosca e Pareto, a conferma che tre secoli e mezzo di divisione pesavano troppo per poterli risolvere solo tramite un’ardita operazione politico-militare.

L’unità civile dopo quella territoriale

La Resistenza ebbe un segno diverso. Giunti a quel punto non si trattava di ricostruire l’unità territoriale, tutto sommato preservata, ma il modello di vita civile e associato, il modello democratico. Insomma la prova una volta ancora diveniva superare la disunione verticale di nuovo indotta dallo straniero e da quel modello divisorio che il fascismo incarna svelando la propria natura antinazionale a sostegno asservito dell’occupante.

In quel tornante della storia il principe nuovo non ha più fattezze individuali, ma collettive.

Sono, e saranno, i partiti massa la nuova incarnazione coi loro dirigenti, fa notare Asor Rosa, anche quando di alta statura, disposti a vivere in funzione di quelle culture, non viceversa come sarebbe avvenuto più tardi.

Servirono le “armi proprie” per salvare il paese, venne sparso il sangue, ma archiviata la guerra e il regime quelle “armi” divennero istituti e funzioni giuridiche e civili con le quali la nuova collettività si sarebbe retta e governata in base a principi di cittadinanza e uguaglianza.

Il punto è che ambedue le pagine – Risorgimento e Resistenza – hanno avuto una durata relativamente breve, all’incirca cinquant’anni, mezzo secolo. Il Risorgimento s’infrange su un ceto politico debole che aprirà la via al fascismo.

La Resistenza pagherà per intero la fine dei partiti di massa, e quando i “principi nuovi” escono di scena, persino dalla memoria, la situazione torna a polverizzarsi con una rinnovata disunione verticale e persino il rischio di riprodurre quella orizzontale se torniamo con la mente alle sciagurate minacce secessioniste di chi oggi si converte sulla strada di Bruxelles.

L’esito? Viene a mancare, o torna a mancare, una coesione sociale, intellettuale, mentale. I veri barbari non vengono più da fuori: camminano in mezzo a noi, “sono dappertutto”.

C’è nel saggio in questione una bella citazione di Spinoza, spiega come Machiavelli abbia voluto mostrare quanto una libera gente debba guardarsi da affidare la propria sicurezza a un solo uomo.

L’attesa del principe nuovo

In fondo così si arriva ad Antonio Gramsci che col Principe interloquirà giudicandolo un libro vivente. Ne coglie il nesso indissolubile tra pensiero e azione, teoria e prassi, e può farlo perché anche lui, il Genio sardo, veniva da una terribile disfatta che si consumava dietro le mura di una cella da cui sarebbe uscito solo per morire.

 Anche da lì l’invito a formare una volontà collettiva nazionalpopolare dove il moderno principe è al contempo organizzatore e espressione operante, riforma intellettuale e morale. Partito politico. Qui la ragione del sottotitolo scelto – Resoconto di una disfatta – nel senso di una nazione incapace a far propria la lezione di Machiavelli con l’Italia e gli italiani ancora in attesa del loro “principe nuovo” con le sue “armi proprie”. Ma forse è troppo tardi, conclude Asor Rosa.

Però è esattamente su quell’ultimo interrogarsi che la cronaca merita uno sguardo all’indietro, condizione per alzare la vista sul dopo.

Osservando la scena di questi giorni, come ci si è giunti, i protagonisti in agone, a me viene da dire che No. Non è troppo tardi perché non può essere troppo tardi.

Il punto è avere passione e schiettezza sufficienti a incardinare la domanda su cosa sia – non per forza chi sia – il moderno principe. Quale lingua debba parlare. Quale moralità e passione civile condividere. E con chi. E per quali scopi.

Nel segno di quali princìpi. Penso – di nuovo alla cronaca torniamo – che un Uomo, per quanto stimato, competente, capace, da solo non basta. Non potrà farcela. Credo che questa – questa nella quale siamo immersi tra pandemia e futuro – sia una fondamentale sfida collettiva che avrebbe bisogno di scavo, nel passato e nel presente se con qualche eresia vogliamo immaginare il tempo prossimo.

Servirebbe un principe? Forse più semplicemente serve un partito attrezzato, una comunità di senso oltre che di programmi, una sinistra dotata della propria cultura e non il simulacro della cultura degli altri. Ma infine, davvero infine, basterebbe comprendere perché non abbiamo bisogno di un volo nella fantasia, meglio guardarsi dentro riconoscendo la realtà. Superman non è mai esistito. Niccolò per fortuna sì.

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