Per capire l’origine dei voti alla Lega e dei rapporti con la ‘ndrangheta dobbiamo andare alla fonte e riportarci all’ideologo dell’allora Lega nord per l’indipendenza della Padania, Gianfranco Miglio, il quale, in un’indimenticabile intervista del 1999 disse: «Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta». Non era un’uscita estemporanea, ma un’affermazione inserita in un disegno che vedeva l’Italia divisa in tre macroregioni. Per quanto riguarda il mezzogiorno la teoria era semplice: «Alcune manifestazioni tipiche del sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate».

Miglio non voleva combattere il fenomeno mafioso, anzi lo voleva mantenere in vita e renderlo costituzionale. Ma, nell’anno che chiudeva il Novecento, si poteva dire che mafia e ‘ndrangheta fossero solo «manifestazioni tipiche del sud»? No! No non si poteva dire. Infatti pochi anni prima, tra il 1991 e il 1995, la magistratura milanese aveva mandato a processo duemila mafiosi nella sola Lombardia. Sono tanti duemila mafiosi, segno che la ‘ndrangheta era oramai radicata in quelle latitudini, e da molto tempo. Eppure, a lungo si cercò di oscurare l’esistenza e l’operatività dei mafiosi al nord.

La Padania, l’organo ufficiale della Lega, per anni nascose ai suoi lettori l’effettiva realtà che era, secondo il verbo padano, popolata da stranieri, da spacciatori di droga, da soggiornanti obbligati, soggetti interessanti perché, essendo tutti del sud, erano funzionali alla narrazione antimeridionale. Da questa convinzione nacquero l’indifferenza, l’apatia, l’insensibilità, la sottovalutazione e persino la negazione dell’esistenza della ‘ndrangheta in particolare nelle terre del nord.

Tranne che per il periodo in cui Roberto Maroni fu ministro dell’Interno, la Lega diede quella interpretazione tanto è vero che molte delle più importanti operazioni della magistratura che incidevano sul terreno economico o politico furono registrate sul giornale ufficiale con trafiletti di poche righe. Raccontare lo spaccio di droga fatto da “clandestini” o da tossicodipendenti andava bene, faceva persino colore; parlare dei rapporti con l’imprenditoria, con i colletti bianchi, con gli uomini politici padani era tutt’altra cosa. In questi casi era meglio tacere. Non si poteva parlare di questi argomenti perché avrebbe nuociuto all’immagine dell’homo padanus, alla vulgata dei “padroni a casa nostra”.

Ma se i padroni erano oramai gli uomini della ‘ndrangheta che si erano comprati bar, ristoranti, alberghi, pizzerie, discoteche, palestre, farmacie, case, palazzi, che avevano sostituito i padroncini padani nel settore dell’edilizia, che erano penetrati fin nell’ortomercato, il mercato agricolo più grande d’Italia, che votavano ed eleggevano uomini nati in Lombardia e in altre regioni del nord, allora era meglio non far conoscere la verità a quelli dall’elmo con le corna in testa che frequentavano il “sacro suolo” di Pontida.

Eppure, negli anni di governo locale e nazionale della Lega si assiste a un curioso ribaltamento: la ‘ndrangheta cresce al nord e diminuisce al sud dove è stata contrastata. La questione vera che la Lega ha fatto di tutto per nascondere, è che molti imprenditori e molti politici del nord si rivolgevano alla ‘ndrangheta, gli uni per avere servizi illegali, gli altri i voti per essere eletti.

Selezione approssimativa

Quando la Lega scende in Calabria ha questo retroterra alle spalle e si avvicina a questa terra, difficile e complicata quanto mai, senza una bussola adatta a capire i meandri e i pericoli disseminati dappertutto. È un partito giovane in Calabria, che non ha referenti sul territorio, e ha un disperato bisogno di uomini e di voti perché solo così, mostrandosi forte e potente, può far dimenticare agli immemori decenni di contumelie e di offese indirizzate verso i calabresi e i meridionali. Arrivano uomini e voti, ma nessuno fa caso alla provenienza degli uni e degli altri.

Sono tutti i benvenuti, accolti a braccia aperte. Il peccato originale della Lega è esattamente questo: aver imbarcato tutti, senza fare una selezione, senza guardare alle relazioni territoriali, alle frequentazioni e agli affari. In Calabria è fondamentale conoscere i legami e le relazioni sociali, le stesse parentele, perché si può avere la fedina penale immacolata, ma se si frequenta abitualmente parenti o mafiosi e con loro si fanno affari, allora un partito politico si deve porre il problema dell’opportunità di varare certe candidature. Se non lo fa, e la Lega non l’ha fatto, le responsabilità politiche sono tutte sue.

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