In tempi di elezioni si parla di cose importanti da fare. Per qualche giorno, le catastrofiche alluvioni delle Marche hanno riportato l’opinione pubblica a confrontarsi con una di queste: la realtà materiale che ci circonda. Ma nonostante le vittime, anche questo momento di sconcerto collettivo durerà poco.

Lo sappiamo perché poco è durata l’attenzione per i tanti eventi simili che hanno segnato gli anni passati. Le grandi questioni internazionali, dalla guerra in Ucraina all’inflazione dilagante all’energia, ritorneranno a definire l’agenda politica, e i rischi associati all’acqua e al clima saranno nuovamente dimenticati.

È un curioso fenomeno di amnesia collettiva. Nelle discussioni elettorali di questi giorni, per esempio, l’assenza di qualsiasi riferimento alla siccità che solo due mesi fa dominava le prime pagine di tutti i giornali è abbagliante: è come se non fosse successa, l’urgenza sciolta nella pioggia come la strega dell’ovest nel Mago di Oz. Quando accadono questi eventi, per un po’ ci stupiamo indignati, fingendo di dimenticare che è tutto già successo. E che abbiamo scelto di non fare nulla.

Il ciclo della cronaca

Non c’è sintomo di immaturità più evidente di un paese governato dal ciclo della cronaca. La siccità può fare notizia, ma poi, alle prime piogge è inevitabile che i giornali si occupino d’altro. Un’alluvione può impegnare i giornalisti per qualche giorno, ma poi altri eventi prendono il sopravvento. Legittimo. La cronaca è questo. Meno legittimo è che la politica, l’amministrazione e la cittadinanza tutta la insegua, dimenticando che il problema della gestione del territorio è una vulnerabilità cronica che, a fronte dei cambiamenti reali in corso, rappresenta un rischio esistenziale. Richiede interventi. Adesso.

L’assenza di memoria, sia chiaro, non è un problema solo italiano. La vicenda del Pakistan, per esempio, della quale i giornali trattavano a fondo qualche giorno fa: sul bacino dell’Indo si è riversato un monsone catastrofico, rovesciando abbastanza acqua da sommergere un terzo del paese.

Si è parlato tanto del fatto che il segretario dell’Onu António Guterres abbia dichiarato questo monsone – con oltre 1.000 vittime – un evento «sotto effetto di steroidi». I giornali in tutto il mondo hanno puntato il dito verso il cambiamento climatico, sottolineando che la catastrofe è di gran lunga la peggiore dell’ultimo decennio.

Dell’ultimo decennio: perché se fossero andati indietro di dodici anni, all’estate del 2010, si sarebbero imbattuti nel monsone che quell’anno, assieme a una perturbazione dall’Asia occidentale, ha causato quasi 2.000 morti, sei milioni di sfollati, e due milioni di case distrutte.

Un triste primato, più o meno comparabile a quello di oggi. Il punto non è fare a gara tra le tragedie: gli eventi del 2010 e del 2022 sono stati entrambi terribili. Ed è pure vero che le medie stagionali riflettono l’inesorabile traccia del cambiamento climatico.

Ma se è vero che il clima sta cambiando, è anche vero che nel caso del Pakistan stiamo assistendo al fallimento della politica di un paese (e di una comunità internazionale) che per dodici anni quasi nulla ha fatto per evitare che il disastro si ripetesse.

L’Indo continua oggi, esattamente come allora, a non avere infrastrutture sufficienti per gestire piene catastrofiche. Ha poca capacità di stoccaggio e quasi nulla capacità di controllo del fiume. Le popolazioni non hanno le risorse per gestire le conseguenze di un’inondazione anomala, e non esistono assicurazioni che ne mutualizzino i rischi su tutta la nazione.

Il Corno d’Africa

Un’amnesia tristemente simile riguarda le carestie che hanno colpito il Corno d’Africa nei mesi scorsi, portando alla fame più di venti milioni di persone. Questo evento ha una radice materiale comune: Kenya, Somalia ed Etiopia hanno sofferto di siccità cronica negli ultimi tre anni. L’agricoltura di sussistenza e la pastorizia, da cui dipendono molte popolazioni vulnerabili locali, sono in ginocchio. Anche in questo caso, però, si è consumato il fallimento politico di paesi fragili che non sono in grado di proteggere la propria popolazione.

Si potrebbe argomentare che il fallimento politico in Pakistan o nel Corno d’Africa sia almeno in parte causato – se non giustificato – dalla mancanza di risorse per l’industrializzazione di quei paesi, necessaria per ridurre il numero di persone esposte a rischi incontrollati.

Dopotutto il Pakistan è un paese relativamente povero, solo parzialmente industrializzato e dove un terzo della popolazione vive sotto la soglia della povertà di tre dollari al giorno. L’Etiopia è uno dei paesi più poveri del mondo, nel quale un decennio di progressi è stato spazzato via da una guerra civile che fa eco alle carestie degli anni Ottanta. E quando non si può fare altro, ci si affida alla fortuna.

Ma gli esempi del Pakistan e del Corno d’Africa sottolineano quanto offensivo e ingiustificabile sia che un paese come l’Italia, che al contrario di Pakistan ed Etiopia, ha risorse e competenze per gestire il proprio territorio e mettere in sicurezza la propria economia, scelga invece di non vedere, di non ricordare, sperando che la fortuna lo assista.

L’Italia è un paese ricco, con un Pil pro capite di venticinque volte quello del Pakistan e un’economia industrializzata che è venti volte più grande di quella etiope.

Soprattutto, è un paese al quale sono stati destinati dall’Unione europea più di 220 miliardi di euro per la ripresa e aumentarne la resilienza. La resilienza, appunto: cioè la capacità di fronteggiare i rischi, eventi catastrofici come la siccità, l’ondata di caldo di quest’estate, o le precipitazioni autunnali che, come era inevitabile fosse, stanno interessando varie parti d’Italia.

Dare un segnale

Ed è in questo contesto che, per una volta, i cittadini italiani hanno l’opportunità di dare un segnale. Poche settimane dopo la più profonda siccità degli ultimi anni e pochi giorni dopo un’alluvione che ha fatto vittime e impressionato il paese, coincidenza vuole che si sia chiamati a votare per coloro che guideranno la nazione nei prossimi cinque anni.

Mi si chiede spesso cosa possa fare un individuo a fronte dei problemi enormi che pone la gestione dell’acqua sul territorio. Rispondo sempre quanto sia importante votare. Il più delle volte, questa risposta non soddisfa: troppo astratta, lontana. Ma questa volta si può e si deve votare. Votare per coloro i cui programmi parlano di questi problemi in maniera precisa. Votare per coloro che parlano di soluzioni specifiche, non di vaghi piani.

È legittimo aspettarsi che coloro che si candidano alla guida del paese propongano azioni concrete, da intraprendere nel corso dei prossimi mesi, per assicurarsi che non ci si ritrovi l’anno prossimo nelle stesse condizioni di quest’anno. L’origine della strategia nazionale per i cambiamenti climatici risale ormai a dieci anni fa. Il Piano nazionale di adattamento climatico, anche se imperfetto, esiste. Quasi nessuno sembra essersi preoccupato di citarlo o, pare, leggerlo. E langue senza piano finanziario da più di quattro anni. Ma, seppur rari, candidati che sappiano di cosa si tratta ci sono. Bisogna trovarli.

È legittimo aspettarsi che i soldi del Pnrr siano gestiti per il territorio, nonostante le amministrazioni nazionali e locali e i cittadini abbiano speso più soldi per i cappotti termici delle case che non per la sicurezza climatica del paese. La prima funzione di un governo è assicurare la sicurezza materiale della popolazione e dell’economia.

È il solo capitolo la cui responsabilità cade interamente sulle spalle del governo nazionale e delle sue espressioni locali. Non si può scaricare sull’Europa o su fattori internazionali. Programmi che parlano degli investimenti necessari ci sono. Basta leggerli.

L’elettore smarrito, che voglia porsi il problema di chi votare alle prossime elezioni, farebbe bene a interrogarsi su quali candidati abbiano una memoria sufficientemente lunga da ricordarsi l’estate appena trascorsa, e quali offrano – pur se nelle pieghe di programmi scritti in fretta – idee concrete, quantificate su cosa fare per evitare che si ripeta nei prossimi anni. È difficile immaginare che chi sia sprovvisto di entrambi, sia poi in grado di scrivere il futuro del paese.

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