La discussione un po’ isterica sulla riforma del catasto al grido de “la casa non si tocca” fa rivenire in mente, certamente in tono minore, quella che Paul Ginsborg (Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi) definisce «una delle pagine più infelici nella storia politica della Repubblica». Forse la più importante riforma mancata del primo centro-sinistra: una legge urbanistica che avrebbe risolto alla radice la questione della rendita fondiaria e della speculazione edilizia, alla base dello sviluppo caotico delle città italiane di cui oggi sono ben visibili gli effetti.

Il progetto, presentato nel 1962 dal ministro democristiano dei lavori pubblici, Fiorentino Sullo, ispirato a normative vigenti in vari paesi europei, prevedeva la concessione ai comuni del diritto di esproprio preventivo delle aree edificabili incluse nei piani regolatori (per i terreni non aventi destinazione urbana prima del piano regolatore, l’indennità di espropriazione doveva basarsi sul prezzo agricolo).

Il comune avrebbe provveduto alle opere di urbanizzazione per poi rivendere con asta pubblica ai privati il diritto di superficie sulle aree (con una base d’asta pari all’indennità di esproprio maggiorata del costo delle opere di urbanizzazione). 

Nella primavera del 1963, alla vigilia delle elezioni politiche, si scatenò una violenta campagna di stampa, che andava “dalla sguaiatezza del Tempo e del Borghese all’autorevolezza conservatrice del Corriere della Sera” (Guido Crainz, Il paese mancato), che alla fine indusse la Dc a sconfessare il proprio ministro e a porre fine al primo e ultimo tentativo di riforma urbanistica in Italia.        

Il “blocco edilizio” che uscì vincitore non comprendeva solo le società immobiliari e la grande proprietà fondiaria ma anche i piccoli proprietari di terreni in aree suburbane. Sullo racconta di avere ricevuto una lettera dalla Romagna di un cittadino che temeva la confisca di un ettaro di terreno sul quale aveva sperato di costruire la dote delle figlie (citato da Edoardo Salzano, Fondamenti di urbanistica). Non solo loro, anche i semplici proprietari di un’abitazione: il Tempo titolò “Otto milioni di capifamiglia decisi a difendere le loro case”.

Lo stesso schema, costruire una massa critica di opposizione a una riforma allarmando masse di persone che da essa in realtà non sarebbero toccate (ma piuttosto avvantaggiate), si ritrova in queste settimane nei titoli giornalistici sulle imposte destinate a triplicarsi per effetto della futura riforma del catasto. 

Il lascito più importante della vicenda del 1963 è, comunque, l’affermazione del principio dell’assenza di regole per la politica della casa, affidata al “fai da te” dei privati i cui interessi prevalgono su quelli della collettività. Così oggi ai piani regolatori si può derogare con accordi di programma oppure con la compensazione urbanistica si attribuiscono ai costruttori diritti edificatori trasferibili. A un livello più diffuso, davanti all’esigenza di contrastare il degrado delle città non si individuano specifiche aree da salvaguardare (come con la legge Malraux in Francia nel 1962) ma si elargisce un bonus del 90 per cento senza limiti di spesa per qualsiasi edificio. Oppure, volendo migliorare l’efficienza energetica delle abitazioni, si copre il 110 per cento della spesa sostenuta (non solo per l‘efficienza energetica) anche per seconde case occupate un mese l’anno.

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