Marin County, California, Dicembre 1978. Clara e Wendy hanno la casa tutta per loro. Il fumo di una sigaretta avvolge le classiche chiacchiere tra due adolescenti: la prima è una biondina con gli occhiali spessi, i libri di Nancy Drew appoggiati su una sedia dalla mamma, un orologio Sunburst alle pareti, i regali sotto l’albero.

Della seconda, invece, non sappiamo molto ma ciò che emerge fin dalle prime battute è la sua voglia di evadere e di sentirsi apprezzata, coinvolta o, semplicemente, notata.

I confini di una cittadina affacciata sull’Oceano si fanno sempre più stretti quando dalla finestra puoi vedere all’orizzonte una grande metropoli come San Francisco.

Lì puoi essere ciò che vuoi, fare ciò che vuoi, senza i limiti fisici e mentali della provincia, specie se hai trovato l’amore in una delle tue brevi fughe verso quelle luci che ora riesci a scorgere in lontananza dalla camera da letto della tua migliore amica.

Così Wendy ci racconta di Billy Joe, un musicista conosciuto il weekend precedente e che le ha regalato una demo che ora risuona in sottofondo mentre condivide con Clara ciò che ha provato durante il loro primo e finora unico incontro, descrivendo il giovane come circondato da un sacco di ragazze, anche se sembrava che guardasse solo lei. E così lo ha invitato lì, proprio lì, in quella casa in cui sono cresciute insieme.

Ma qualcosa non andrà come programmato: alla porta si presenterà infatti la statuaria Susy, che ricorda un po’ Tura Satana dei panni di Varla in Faster, Pussycat! Kill! Kill! di Russ Meyer, che le convincerà a seguirla ripetendo gli strambi ma affascinanti insegnamenti di Billy Joe. Clara e Wendy partono così verso la “libertà” promessa. Ma ad attenderle ci saranno solo il buio e tanti, tanti coltelli.

Sette e culti

Il SoCal, il caldo sud della California, é stato un terreno fertile per il proliferare di sette e culti della persona, non solo quelli legati più specificatamente al mondo di celluloide dei divi del cinema.

Alcuni dei culti più famosi della storia americana hanno infatti avuto origine proprio lì ed è lo stesso Benjamin Marra a sottolineare in una intervista per il canale YouTube Wits’End Podcast che a ispirarlo per Discepoli (D Editore) è stato il fascino che il fumettista prova da sempre nei confronti di quello strano mix tra cultura hippie e violenza che ha dato vita, a partire dalla fine degli anni ’60, a una serie di sette di matrice esoterica, talvolta apertamente sataniche, o di movimenti religiosi finiti molto male.

Children of God, Heaven’s Gate, Peoples Temple, la Manson Family e, a seconda di come vogliamo interpretare la parola setta, anche la Chiesa di Scientology sono solo alcuni dei fenomeni più bizzarri che hanno avuto origine nello Stato americano.

E non è un caso che proprio lì, in quella che viene definita Silicon Valley, sia nato un sistema più subdolo e capillare di manipolazione: quello dei social network, dove al leader si è sostituito l’influencer e all’adepto il follower.

Anche Wendy e Clara finiscono all’interno di una setta ma Clara riesce a scappare cinque mesi dopo e a rifarsi una vita con un nuovo nome: Lucy.

Finché, anni dopo, non deciderà di andare in tv a raccontare la sua storia: ha bisogno di soldi per poter pagare alla figlia Wren la retta della Ucla, la prestigiosa Università della California a Los Angeles, e non farla finire in un community college, dandole quella opportunità di riscatto che forse avrebbe salvato anche Wendy.

Sette e follower 

Clara sembra dunque una brava madre, nonostante tutto, di quelle che ti dicono di non mettere le tue foto su internet e che si preoccupano se fai tardi.

È qui che gli autori nascondono tra le righe il parallelo tra le sette del passato e il legame che intercorre tra una persona e i propri follower su piattaforme come Instagram.

Wren vuole infatti essere la “Valley Queen”, così come suggerisce il suo username: basta, però, una foto intercettata dalla persona sbagliata per far collidere passato e presente, uniti dalle note di I’ll Never Say Never To Always di Charles Manson (1970).

Da quel momento la trama del graphic novel diventa un delirio lisergico che ci porta in una dimensione onirica e surreale, un incubo che omaggia i linguaggi del thriller, la golden age del cinema slasher e quel mix che alterna sapientemente momenti lenti ma ansiogeni a climax di violenza, incorniciando Discepoli in un’opera dai connotati post-tarantiniani.

Wren si innamora in un attimo di una figura misteriosa e ammaliatrice e lo porta a casa, con la stessa ingenuità che aveva avuto Wendy prima di lei. Ma chi sarà davvero questo giovane? In realtà qualcuno di molto, molto pericoloso che porterà Clara a fare i conti col suo passato e a rivivere manipolazioni, piaceri, violenze, incantesimi e orge.

II sangue diventa  l’elemento chiave di una storia che ci svela pagina dopo pagina sempre più elementi per scoprire la verità su un culto orrorifico e a tratti vampiresco, che riporta alla memoria The Addiction di Abel Ferrara.

È proprio questo intreccio di strutture narrative che esplodono in maniera drammatica e continui richiami al mondo del cinema a delineare lo stile degli sceneggiatori David Birke e Nicholas McCarthy, due registi affermati nel mondo del new horror grazie a film come Slender Man (2018), divenuto un culto tra gli affezionati del genere e The Prodigy (2019).

LA violenza

I due, per la resa su carta di questo incubo famigliare, si affidano allo straordinario talento di Benjamin Marra, uno dei maestri del fumetto indipendente americano grazie a capolavori come Night Business e l’iconico Jesusfreak.

Marra riesce a regalare alla storia uno stile oscuro che ricorda i migliori momenti di Chuck Forsman e Charles Burns, portando la trama di Discepoli in una dimensione visiva che strizza l’occhio a Tutti i colori del buio di Sergio Martino e alla New French Extremity di capolavori come Martyr di Pascal Laugier.

Ma abbiamo davvero bisogno di elementi così violenti all’interno di una produzione artistica?

Nel caso di Discepoli, così come nei film citati, la violenza non è solo un elemento di mera estetizzazione ma diventa il pretesto di una critica sociale. Viene infatti enfatizzata, esasperata e, con un tacito accordo, accettata da chi guarda in quanto diventa necessaria al rinforzo del sottotesto politico e sociale dell’opera.

Non è dunque un elemento fine a se stesso ma assume una connotazione “trascendentale”: come sottolineato dal filosofo Theodor Adorno con la sua Teoria estetica, in un mondo assopito da idealizzazioni artificiose, omologate, in cui ci vengono imposti stereotipi funzionali a preservare il gusto dominante delle società massificate, la “vera arte” è quella in grado di aprirci gli occhi tramite il disgusto, il terrore, l’indignazione.

Il sangue è funzionale a squarciare il “Velo di Maya” che ci allontana dalla Verità anche se, a voler ben vedere, dopo il successo di prodotti di massa come The Boys sembra che la violenza sia stata in un certo senso normalizzata e depoliticizzata, per renderla un mansueto prodotto commerciale.

In un mondo dominato dal culto della personalità, dove i follower diventano i “seguaci” di veri e propri idoli in grado di plasmarli e sacrificarli sull’altare di un capitalismo occultato da uno storytelling fintamente empatico e manipolativo, l’opera di Birke, McCarthy e Marra diventa una piccola gemma di riscatto personale verso chi vuole farci dimenticare chi siamo davvero. 

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