Nel corso di una lunga conferenza stampa, un torrenziale Donald Trump ha rilasciato ai giornalisti presenti alla Casa Bianca una serie di dichiarazioni relative alle attività che i suoi Stati Uniti intenderebbero realizzare sul piano delle relazioni internazionali. Il Presidente ha toccato tutti i principali contesti di rilevanza per la situazione internazionale attuale, dalla guerra tra Russia e Ucraina al conflitto israelo-palestinese e al destino di Gaza, fino alle questioni di rilevanza economica.

Ora, sorvolando sul surreale video prodotto con l’intelligenza artificiale e diffuso sui canali social della Casa Bianca che ci prospetta una futura Gaza come un resort in cui troneggerebbe una statua d’oro dello stesso presidente, concentriamoci sul fatto che quest’ultimo ha dichiarato che intende adottare dazi doganali nei confronti dei prodotti europei fino al 25% del loro valore, perché l’Unione europea sarebbe «stata creata per fregare gli Stati Uniti».

Prescindiamo pure da quest’ultima affermazione, storicamente talmente falsa al punto da esser anch’essa surreale, e cerchiamo invece di capire se il diritto internazionale contemporaneo legittimi o consenta una siffatta adozione.

Le origini

Dall’istituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), avvenuta nel 1995 e di cui gli stessi Stati Uniti sono stati i principali promotori, la materia dei dazi doganali sugli scambi di merci è regolata, sul piano internazionale, da una serie di obblighi contemplati dagli Accordi gestiti e amministrati dalla stessa Omc.

Questi, va detto, non prevedono un divieto assoluto di dazi doganali, i quali, anzi, in applicazione del cosiddetto principio di protezione doganale esclusiva, costituiscono per gli Stati gli unici strumenti legittimi di restrizione degli scambi internazionali, essendo tutti gli altri, e in particolare le cosiddette restrizioni quantitative, vietati da detti accordi.

Tuttavia il sistema di regole dell’Omc contempla pure un obbligo, quello del trattamento generalizzato della nazione più favorita, in base al quale ogni vantaggio concesso da uno Stato membro a un altro Stato si estende automaticamente a tutti i Membri dell’Omc. Per capirsi: nel momento in cui un paese membro accorda a un altro stato un determinato livello di dazio doganale, lo stesso si applica a tutti i prodotti similari provenienti da qualsiasi membro dell’organizzazione.

Questo comporta, quindi, il “consolidamento” verso il basso dei dazi doganali. Il sistema, insomma, estende automaticamente a tutti i membri i benefici concessi anche solo ad uno di essi, al fine di vietare forme di discriminazione, e garantire così il loro pari trattamento. Insomma, l’adozione di tassi doganali “generali” (proprio quelli ai quali ha fatto riferimento Trump) più elevati in danno di solo uno dei membri è, in linea di principio, vietata dalle norme del sistema commerciale multilaterale. Ed è proprio grazie a questo meccanismo che, negli ultimi decenni, il livello medio dei dazi doganali è sceso a valori molto molto bassi rispetto a un tempo, promuovendo gli scambi.

Dazi come reazione

La possibilità di adottare dazi più alti è, invece, consentita come mezzo di reazione a comportamenti illegittimi posti in essere da altri membri, come può avvenire nel caso delle misure compensative di sovvenzioni pubbliche – come quelle adottate dall’Unione europea nei confronti delle automobili elettriche cinesi le quali, secondo l’Ue, si avvantaggiano di sovvenzioni pubbliche cinesi – oppure per reagire a un altro comportamento vietato dagli stessi accordi, il dumping sui prezzi, cioè, in buona sostanza, la vendita all’estero di un prodotto al di al di sotto del suo valore “normale” per aggredire il mercato.

Ma, almeno stando alle dichiarazioni di ieri, i minacciati dazi statunitensi non rientrerebbero in questi strumenti di reazione a comportamenti illegittimi altrui ma sarebbero, per così dire, dazi generali e, quindi, come abbiamo detto, incompatibili con l’obbligo di trattamento generalizzato della nazione più favorita.

Sotto un profilo più generale, poi, va ricordato che gli Stati, anche nel caso di patenti violazioni di obblighi di diritto internazionale, parlano sempre e comunque “la lingua” del diritto internazionale, anche solo per (cercare di) giustificare i propri comportamenti, ancorché non giuridicamente giustificabili: la Russia di Putin, ad esempio, con riguardo alla sua “operazione militare speciale” contro l’Ucraina – che, in realtà, è un crimine di aggressione – ha affermato di stare agendo nell’esercizio del diritto di legittima difesa dalla Nato, garantito dalla Carta delle Nazioni Unite e dalla corrispondente norma di diritto internazionale generale, e che le popolazioni russofone della Crimea e del Donbass invocano il loro diritto all’autodeterminazione e desiderano quindi che i loro territori diventino parte della Russia; parimenti ha fatto Israele, invocando, anche se pure qui impropriamente, il diritto alla legittima difesa contro gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, e ciò mentre realizzava e realizza una serie di sistematiche violazioni del diritto internazionale umanitario (a sua volta, secondo Israele, giustificate dal fatto che i combattenti di Hamas si nasconderebbero tra i civili) e, con ogni probabilità, un crimine di genocidio.

La violazione del diritto internazionale

L’amministrazione statunitense attuale e in particolare il suo Presidente, invece, non ha mai fatto e non fa riferimento a cause di giustificazione della violazione di obblighi di diritto internazionale che, anzi, non sono neppure citati, come se gli Stati Uniti ne fossero del tutto svincolati. Il che, ovviamente, non è.

E la volontà degli Usa attuali di ignorare il diritto internazionale non si limita, purtroppo, al solo settore economico: l’elenco delle iniziative in tal senso è lungo e drammatico comprende, tra gli altri, minacce all’integrità di un numero crescente di Stati, il ritiro da istituzioni e strumenti internazionali come l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, il trasferimento forzato di due milioni di palestinesi da Gaza, il rifiuto di rispettare gli obblighi nei confronti di richiedenti asilo e rifugiati, l’adozione di sanzioni contro membri della Corte penale internazionale.

Si tratta di elementi che, però, non sono passati inosservati neppure negli Usa stessi: da ultimo la American Society of International Law, fondata nel 1906 dal Segretario di Stato Elihu Root, ha rilasciato una dichiarazione a firma della sua presidente, Mélida Hodgson, in cui si ricorda che questo “ritiro” degli Usa dal diritto internazionale costituisce un’abdicazione senza precedenti della responsabilità americana e lascia un vuoto che, in ultima analisi, porterà caos, conflitti e violenza e indebolirà per primi gli Stati Uniti.

Dal canto suo, l’Unione europea, pure nella sua non enorme rilevanza nel contesto globale contemporaneo, fa apprezzabilmente segnare quanto meno una differenza di approccio e risponde facendo esplicitamente riferimento agli obblighi internazionali e al fatto che, qualora gli Stati Uniti dovessero violarli, essa reagirà nel rispetto dei meccanismi e degli strumenti da esso previsti e ci ricorda quindi che il diritto internazionale deve ancora giocare il suo ruolo di “mite civilizzatore delle Nazioni”.

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