L'evasione fiscale è prima di tutto una questione di giustizia sociale e in quanto tale elemento divisivo della politica e causa di forti reazioni nell’opinione pubblica. Ma emozioni e ideologia non aiutano a individuare i modi più efficienti per superare un’emergenza che dura da troppo tempo.

L'Italia è uno dei pochi paesi al mondo che calcola per ogni imposta una misura del tax gap, la differenza tra quanto effettivamente riscosso e quanto si sarebbe dovuto incassare. Al netto dei contributi sociali (in analogia con altri paesi) il tax gap è stato di 86 miliardi nel 2018 (ultimo disponibile): una cifra notevole ma che non dà la piena misura della gravità del problema.

Il tasso di compliance, ovvero il rapporto tra imposte evase e quelle teoriche dovute è del 29 per cento (media tra il 66 per gli autonomi e 24 per Ires e Iva) contro il 16 negli Usa e il 5 in Gran Bretagna i due paesi più virtuosi. Nel 2018, per la prima volta dopo 5 anni il tax gap ha segnato una riduzione ma ancora troppo poco: appena il 6 per cento rispetto agli anni precedenti.

Il problema dunque persiste nonostante negli ultimi anni l’Italia si sia dotata delle migliori norme e pratiche anti elusive a livello internazionale, come lo scambio automatico di informazioni con altri paesi, la normativa sull’abuso del diritto e sull’autoriciclaggio, fattura e scontrini elettronici, reverse charge per l’Iva, monitoraggio completo dei dati finanziari, studi di settore e indici di affidabilità fiscale, segnalazioni anti riciclaggio del sistema bancario, limiti al contante.

A caccia di evasori

Contro l’evasione l’Italia mette in campo un esercito 102 mila persone tra Agenzia delle Entrate (AdE), Guardia di Finanza (GdF) e Agenzia delle Dogane e Monopoli. Anche ipotizzando che solo la metà della GdF sia impiegata contro l’evasione, schieriamo 19 controllori ogni 10.000 persone in età lavorativa, rispetto ai 3,5 dell’americana IRS (per le sole imposte federali) e alle 14 dell’inglese HMRC (più analoga alle nostre agenzie), che hanno una compliance ben maggiore.

Questi enti, insieme all’Ispettorato del Lavoro per i contributi, in un solo anno hanno fatto ben 840 mila accertamenti. Non manca poi la volontà politica visto che da 10 anni abbiamo governi sostenuti da partiti che della lotta all’evasione hanno fatto una bandiera. E neppure le informazioni: tramite il tax gap lo Stato dichiara di conoscere esattamente l’ammontare evaso di ogni singola imposta, oltre che la dimensione economica di economia sommersa. Ma se conosce chi evade e quanto evade, perché così tanta evasione?

Evidentemente qualcosa non quadra. Vedo tre problemi nella gestione dell’amministrazione fiscale: efficienza, approccio; e utilizzo del tax gap.

Quale efficienza

L’efficienza richiederebbe che ci si concentrasse prevalentemente sull’analisi metodica dei flussi finanziari, ormai interamente tracciabili, con la sola eccezione di chi, come la criminalità organizzata, riesce a riciclare sistematicamente introiti in contanti. In analogia con quanto richiesto alle imprese, si dovrebbe calcolare per ogni contribuente una sorta di rendiconto finanziario che misura il flusso netto di cassa in un certo periodo.

Sarebbe possibile calcolarlo, senza violare la privacy (schermando i codici fiscali) come variazione del saldo di tutti i conti correnti nell’anno, più affitti, interessi e premi incassati (meno quelli pagati), più la vendita di attività finanziarie e immobili (meno gli acquisti), più prestiti assunti (meno quelli rimborsati) e donazioni, liberalità o eredità ricevute (meno concesse), a cui aggiungere il reddito dichiarato.

Questo flusso di cassa verrebbe confrontato con la somma di tutte le spese fatte nel periodo (tramite bonifici, carte di credito o contante prelevato): se emerge una discrepanza statisticamente significativa il fisco non presume evasione, ma chiede spiegazioni, e solo in seguito accerta, su basi oggettive, una violazione.

Si eviterebbero gli sprechi di tempo e risorse nei provvedimenti cervellotici della lotta al contante, gli accertamenti a pioggia, gli studi di settore o la proliferazione normativa.

Il recente scontro sulla rottamazione delle cartelle è un altro esempio di uso inefficiente delle risorse: il fisco è creditore privilegiato e ha tutti gli strumenti (pignoramento del quinto, beni mobili e immobili, decreti ingiuntivi) per recuperare il dovuto.

Se non ci riesce in 10 anni o è altamente incompetente o non è più possibile: inutile sprecare risorse per crediti che valgono zero.

Il contenzioso e la monetina

Ma niente aumenterebbe l’efficienza di un sistema tributario come la certezza del diritto. Da noi invece, nei procedimenti presso le Commissioni Tributarie provinciali e regionali, l’Agenzia delle entrate ha la meglio soltanto nel 46,8 e 46,1 per cento dei casi. Così, il contenzioso assomiglia a tirare la monetina.

Abbiamo giudici impreparati, malpagati, con tribunali tributari che troppo spesso deliberano in modo contradditorio. L’efficienza richiederebbe una giustizia tributaria di professionisti ben pagati, filtri rigorosi per i ricorsi, sentenze di Cassazione vincolanti, accorpamento delle commissioni e sedi specializzate per i casi complessi.

Il contrasto all’evasione dai toni polizieschi e repressivi soddisfa gli umori dell’opinione pubblica, ma è controproducente. Il tax gap si riduce più facilmente incentivando la compliance. Come? Semplificando le norme, accorpando i tributi, eliminando la selva di deduzioni, detrazioni, sussidi, agevolazioni (sono incentivi a eludere), allineando bilancio civilistico e tributario per le imprese, con un contenzioso rapido e certo, e la certezza del controllo sistematico dei dati finanziari.

Il tax gap è uno strumento utile, ma se ne fa un uso improprio. Viene presentato come una cifra certa da recuperare mentre è solo una stima incerta. Per esempio, si stima l’evasione dell’Ires non su un campione casuale di contribuenti (come negli Usa e UK) ma combinando accertamenti fatti, che presuppongono un’infrazione, con i dati dell’Irap, che lascia alquanto a desiderare.

Per gli autonomi si ipotizza un reddito uguale a un lavoratore dipendente equiparato, e per le piccole imprese a quello dei dipendenti più un rendimento del capitale: ipotesi ragionevoli ma incerte, specie nei periodi di recessione. Un dato realistico dovrebbe essere dunque depurato di un margine di errore.

Anche così non tutto il tax gap è recuperabile. Da noi è il 4,9 per cento del Pil: un obiettivo realistico sarebbe portarlo al livello medio di Usa e Uk (2,2), ovvero circa 48 miliardi, rispetto agli 86 dichiarati. La riduzione del tax gap dovrebbe essere usata come misura dell’evasione recuperata, per poi essere restituita in modo automatico ai cittadini, abbassando le imposte in proporzione a quanto hanno pagato.

Oggi invece l’evasione recuperata in Finanziaria è la differenza tra imposte incassate e quelle preventivate, che ben poco a che fare col tax gap; e usata discrezionalmente nel bilancio pubblico. La guerra così non la si vince.

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