Una ricerca pubblicata il 24 maggio dal New York Times accerta che la working class Usa (bianca, nera, ispanica) un tempo roccaforte democratica, vota sempre più il partito repubblicano a ogni elezione presidenziale, a partire dal 2012. Colpa delle delocalizzazioni? Può darsi, ma intanto la disoccupazione ufficiale nel 2024 continua a essere stabile sotto il 4 per cento, cioè piena occupazione effettiva che per la working class dovrebbe essere una pacchia.

Le spiegazioni dell’Ia

Gemini e Deepseek convergono a sostenere (esprimendo quanto appreso nel machine learning) che gli attuali lavori per i senza diploma sono a bassa qualifica, paghe scarse (salari stagnanti dal 1973) ed escludono crescita sociale. Chi nasce in Terza Classe ci resta, come il vecchio servo nella gleba.

Più precisamente (dandone merito particolare a Deepseek) dal 2000 gli Usa hanno perso cinque milioni di posti manifatturieri (-25 per cento), sia per delocalizzazioni sia per automazione. Per contro i nuovi posti di fattorinaggio (Amazon) e simili sono meno stabili e sindacalizzati, con conseguente perdita di benefit sanitari e pensionistici.

Nel decennio 2005-2015 (coperto per lo più dalla presidenza di Barack Obama) il 94 per cento dei nuovi posti erano contratti “alternativi”, temporanei, part-time, gig economy (da uno studio congiunto di Harvard e Princeton pubblicato nel 2016 da Katz e Krueger). La mobilità occupazionale forzata, in media un cambio di lavoro ogni quattro anni, crea insicurezza. In sostanza, la bassa disoccupazione (qui il pensiero corre alle recenti, rosee, statistiche italiane) non cattura la perdita di qualità, stabilità, e dignità del lavoro stabile.

Ovvio che in questo quadro la working class sia una roccaforte trumpiana anti immigrati (in edilizia il 24 per cento dei lavoratori è nato all’estero, da Bureau of Labor Statistics, Report 2023 - Tabelle 4 e 5) perché è immediatamente esposta alla concorrenza di chi attraversa mari e deserti con poche pretese e indomite speranze.

A questo riguardo leggiamo Usa intendendo Italia, salvo che mentre in America il problema è la precarizzazione legale (gig economy, contratti atipici), in Europa (ma soprattutto da noi) dominano il sommerso e il dumping salariale. Nell’edilizia i lavoratori stranieri (est europei e nord africani) sono, da fonte Inps 2023, il 24-30 per cento (come in Usa) ma il 30-40 per cento del lavoro edile, fonte Fondazione Di Vittorio 2023, è irregolare (contro il 5-10 per cento della media Ue).

Messi in fila i dati, è evidente che la precarizzazione del lavoro sfascia le fondamenta sociali della democrazia di massa. Brutto sbocco della “flessibilità” cui molti, anche chi scrive, accesero a suo tempo più d’un cero. Ora contempliamo, guardando agli Usa, lo sbocco verso il patto tra cleptomani di vertice e dannati dell’economia del lavoretto, mentre gli immigrati vengono perseguitati.

Le soluzioni di Deepseek

Ovviamente, abbiamo chiesto a Deepseek cosa risulta da fare perché la precarizzazione non distrugga la democrazia. Sintetizziamo le risposte (mentre stiamo per votare ai referendum che questi problemi li toccano in gran parte): triplicare gli ispettori del lavoro portandoli a un su 2000 lavoratori, come in Germania; blockchain per pagamenti e contributi degli appalti; reddito di cittadinanza con riqualificazione obbligatoria; Naspi estesa ad autonomi e intermittenti; incentivi alle imprese che fanno formazione; salario minimo legale con piano di rientro per le Pmi (es. Spagna).

Quote obbligatorie di giovani e precari negli organi sindacali. Scuola professionale gratuita con stipendio dalle aziende partner, come in Austria. Bonus formazione permanente stile “Compte Personnel de Formation” francese (fino a €5.000/anno). Canali legali per immigrati con modello di regolarizzazione canadese. Accordi tipo Italia-Albania su formazione e rimesse legali. Da evitare: misure punitive senza alternative (es. solo multe al nero) che spingono nell’illegalità.

Questo è quanto.

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