Il Ventesimo secolo si è concluso con una diffusione territoriale senza precedenti della democrazia. È stata una svolta storica, eredità dell’ultimo quarto del Novecento, nel corso del quale sono implosi molti stati autoritari o totalitari e, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, a molti è parsa una tendenza irreversibile e inarrestabile.

Rispetto agli anni Novanta, oggi consideriamo con minore slancio ottimistico la prospettiva di una diffusione globale della democrazia e siamo consapevoli dei rischi di regressione illiberale che possono correre anche sistemi democratici consolidati.

Nonostante le difficili prove che stiamo attraversando, aggravate dal perdurare della pandemia di Covid-19, non mancano riproposizioni di facili entusiasmi. Soprattutto dopo la vittoria elettorale di Joe Biden, alcuni osservatori ritengono conclusa la fase storica caratterizzata dalla contestazione delle classi dirigenti delle principali democrazie. Tuttavia, essi sottovalutano che da anni l’insoddisfazione per il funzionamento delle istituzioni democratiche è in aumento in molti paesi. Fra coloro che cercano di fare luce sulle radici profonde del “malessere” che coinvolge da tempo le democrazie liberali vi è il direttore di Domani Stefano Feltri, con il suo ultimo libro, Tornare cittadini (Einaudi, 2021).

L’inganno del popolo

Se la prospettiva dei neopopulisti è tutta incentrata su una contrapposizione manichea fra establishment e “popolo”, entrambi considerati quali insiemi indistinti (sebbene con definizioni di popolo differenziate), il merito del libro di Stefano Feltri risiede, oltre che nella decostruzione di tale punto di vista, anche nella ricostruzione delle strade attraverso le quali spezzoni delle stesse classi dirigenti hanno contribuito ad alimentare quella medesima prospettiva.

Opportunamente, Feltri si sofferma su fattori quali lo “shock della globalizzazione”, le conseguenze sulle persone, sia di natura economica sia culturali, e la sottovalutazione di tali processi da parte delle classi dirigenti delle democrazie occidentali.

Vengono rivisitate in modo critico alcune chiavi di lettura, particolarmente diffuse negli anni Novanta: ad esempio, la tesi della “fine della storia” diffusasi nel mondo post- 1989, secondo la quale, sconfitto il comunismo sovietico, si ritenevano superate le contrapposizioni ideologiche basate su modelli politico-sociali alternativi.

La stessa diffusione del concetto di “governance” al posto di “governo” alludeva ad un’attività di gestione della politica considerata soprattutto in termini di efficacia ed efficienza.  Si tratta di una prospettiva miope: la partecipazione rimanda all’orizzonte sempre possibile della contesa fra i partecipanti. Infatti, non tutte le interazioni sociali sono improntate alla cooperazione: spesso la scarsità delle risorse, materiali o immateriali, provoca conflitti.

Il conflitto è una forma di interazione fra individui e gruppi che implica scontri per il controllo e l’allocazione di risorse scarse e costituisce un esito sempre possibile della partecipazione.

A differenza di altri regimi, le democrazie liberali ne ammettono esplicitamente l’eventualità, poiché la possibilità di dissenso, etico e politico, è parte integrante dell’identità del cittadino democratico. Se non riconosciamo la legittimità del conflitto (e, in alcuni casi, la sua fertilità) anche il compromesso diviene difficile da ottenere. Diventa una sorta di fallimento. O di tradimento. Pertanto, se viene negato il conflitto tra idee e posizioni diverse – come destra e sinistra – allora l’unica polarizzazione possibile diventa quella tra l’ establishment e chi vi si oppone.

L’arrivo dei neopopulisti

Nella rappresentazione di questa nuova forma di conflitto le parti in causa condividono la medesima caratteristica: l’omogeneità. Establishment e “popolo” sono considerati in conflitto fra loro, ma, al loro interno omogenei, in aperta discontinuità con la prospettiva pluralista che caratterizza le democrazie liberali.

L’insorgenza dei “neopopulisti”, le loro critiche radicali, la rivendicazione di una “voce” collettiva, la riproposizione in nuove vesti del conflitto rappresentano novità inattese per quanti pensavano che la globalizzazione portasse con sé una progressiva individualizzazione della società e che, di conseguenza, le identità collettive fossero destinate a diventare marginali.

La forza della democrazia liberale è sempre stata connessa alla sua flessibilità e alla capacità di apprendimento delle sue classi dirigenti. Oggi le élite possono giovarsi di una maggiore consapevolezza sulle conseguenze dei processi di globalizzazione: sappiamo, ad esempio, che la globalizzazione alimenta in ampi strati delle società contemporanee richieste di sicurezza, protezione e ricerca di ancoraggi culturali stabili. Sappiamo, altresì, che se si rimuovono tali richieste la società rimane esposta a lacerazioni crescenti.

Già a metà degli anni Novanta, in un clima caratterizzato dal crollo del Muro di Berlino, ma anche dalle prime controspinte scaturite dall’intensificarsi della globalizzazione, Albert Otto Hirschman (Autosovversione, il Mulino, 1999) si chiedeva: «Di quanto spirito comunitario (Gemeinsinn) ha bisogno la società liberale?».

Hirschman ricorda che nella prima metà del Novecento il riferimento alla comunità ha assunto tratti fortemente critici nei confronti della democrazia liberale, per cui ancora vi è da guardare con diffidenza ai richiami di un Gemeinsinn così forte da sopire qualsiasi differenza e qualsiasi possibilità di dissenso.

Pertanto, Hirschman sottolinea l’esigenza di ripensare a come ricostruire reti di protezione collettive, ma, al contempo, di rifuggire da idee organiciste e liberticide di comunità sulla cui pericolosità la prima parte del Novecento ci aveva dato ampia dimostrazione.

Si tratta di un tema di grande attualità: per molti anni il senso comune mediatico e politico è stato orientato alla rimozione del tema della comunità, ma, come spesso accade, il rimosso ritorna e tale questione è oggi molto più urgente rispetto a quando Hirschman ha posto la sua domanda cruciale. In varie sedi si propone una versione della comunità in cui non vi è spazio per il dissenso e per il pluralismo, che sono caratteristiche essenziali della democrazia liberale. Ricostruire reti di solidarietà e protezione collettiva nel pieno rispetto del pluralismo e della libertà è quello che serve ora per rafforzare le democrazie.

Il ritorno del conflitto

Naturalmente, cercare di reintrodurre nel confronto politico i temi riguardanti la solidarietà e la sicurezza collettiva non è un processo lineare né scontato: non è un caso che il libro di Feltri si concluda con molteplici riferimenti al «ritorno del conflitto». Ma non lineare e conflittuale è lo stesso percorso evolutivo della cittadinanza (si veda a tal proposito Giovanni Moro, Cittadinanza, Mondadori Università, 2020). Feltri ricorda l’esperienza di Bernie Sanders, sconfitto nelle primarie democratiche da Biden, ma in grado di avanzare proposte innovative in senso inclusivo (sul salario minimo, sull’assistenza sanitaria, sull’ambiente) capaci di aggregare potenziali maggioranze e di risvegliare la speranza in molti cittadini scontenti.

Allo stesso modo possiamo pensare a Greta Thunberg e ai giovani di Fridays for Future che hanno avuto il merito di tematizzare la questione ambientale e i conflitti ad essa correlati, ricordandoci che le comunità non sono solo quelle di origine, ma anche quelle costituite da persone che si uniscono per raggiungere un obiettivo condiviso.

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