Su Repubblica del 18 maggio, tre autorevoli esponenti del Pd, Stefano Ceccanti, Enrico Morando e Giorgio Tonini, attaccano la segretaria Elly Schlein imputandole il rischio di un «regresso verso un antagonismo identitario» e, sostanzialmente, la mancanza di cultura di governo.

I tre si autodefiniscono “riformisti”, indicando così implicitamente la nuova maggioranza del partito come massimalista o estremista, e forse, perché no? perfino “comunista”. Polemica stantia e troppo comoda, perché essi in realtà rappresentano semplicemente la destra del Pd.

Non essendo, almeno per il momento, iscritto al Pd, non intendo imbarcarmi in una polemica interna, ma solo offrire alcuni spunti di riflessione.

Il contesto economico

Partiamo dall’economia. I tre indicano giustamente la mancata crescita della produttività come causa della stagnazione dell’economia italiana, ma senza insistere sulla flessibilità del lavoro, per lungo tempo in passato al centro delle loro attenzioni, si concentrano sulla necessità di promuovere un sistema di istruzione selettivo e meritocratico che sarebbe lo strumento decisivo per promuovere l’aumento della produttività.

Si tratta di una posizione sorprendente nella sua ingenuità che mostra, oltre che un’adesione acritica alla visione di un’economia dell’offerta, una inconsapevolezza sostanziale dei problemi reali dell’economia italiana.

In proposito vorrei richiamare le analisi di Pierluigi Ciocca, un banchiere centrale e non certo un economista radicale, che in numerosi scritti continua a indicare i problemi di fondo della nostra economia così sintetizzati: «Profitti troppo facili per le imprese e gravi carenze nel governo dell’economia».

Nel 1990 la produttività dell’economia italiana, dopo 10 anni di politica monetaria (Ciampi) non accomodante, si situava ai livelli massimi nel contesto internazionale, in quanto le imprese erano indotte a ricercare il profitto attraverso gli investimenti e l’innovazione. Dopo il crollo della lira nel 1992 e l’adesione alla moneta unica con un livello di cambio molto favorevole, questo freno è venuto meno.

Gli investimenti fissi lordi sono drasticamente diminuiti e spesso negli ultimi anni essi sono risultati negativi al netto degli ammortamenti. Senza investimenti non c’è progresso tecnico e la produttività ristagna. La concorrenza tra le imprese si è ridotta e le posizioni di rendita sono aumentate. I sindacati fortemente indeboliti non sono stati in grado di rappresentare un incentivo all’innovazione. Le politiche pubbliche sono state molto favorevoli alle imprese con sussidi di tutti i generi, in un contesto di elusione ed evasione fiscale tollerata.

I profitti sono così diventati “facili”, e infatti le imprese hanno ridotto l’indebitamento e hanno indirizzato gli investimenti verso il settore immobiliare, alla ricerca di rendite sicure. Le imprese non crescono: oltre il 90 per cento occupa meno di 4 addetti! Il fatto che esistano medie imprese molto efficienti e produttive anche a livello internazionale non cambia il quadro complessivo.

A ciò si aggiunge il mancato risanamento della finanza pubblica. Il bilancio di parte corrente che dovrebbe essere in pareggio, continua ad essere in deficit per circa due punti di Pil, mentre il disavanzo dovrebbe essere utilizzato esclusivamente per gli investimenti pubblici che sono a loro volta crollati, come le recenti alluvioni ci dimostrano e confermano. La distribuzione del reddito e della ricchezza sono fortemente peggiorate e il numero di persone in povertà assoluta ha raggiunto livelli drammatici.

Una seria riforma fiscale

Queste sarebbero le questioni su cui i nostri tre autori, ma anche l’intera opposizione politica, dovrebbero interrogarsi, ma non lo fanno limitandosi a cercare di delegittimare l’attuale maggioranza che a sua volta faticherà non poco a riprendere il bandolo della matassa. Nel loro documento Ceccanti, Morando e Tonini, non accennano neppure al problema di una seria riforma fiscale in una situazione in cui, a parità di reddito un lavoratore autonomo tenendo conto dell’evasione e del regime forfettario, paga il 4 per cento del suo reddito effettivo, mentre un lavoratore dipendente più del 30 per cento! Quasi che le tasse non influissero sui comportamenti economi dei cittadini e delle imprese.

Vi è poi la questione istituzionale che è centrale nel documento alla nostra attenzione. Personalmente, ho sempre considerato eccessiva l’enfasi posta su queste questioni dalla sinistra italiana che, a mio modo di vedere, ha sempre rappresentato una sorta di alibi rispetto alle difficili scelte economiche che l’Italia era (ed è) chiamata a compiere. In ogni caso concordo sulla necessità di stabilizzare i governi, di rafforzare la posizione del premier (ma senza elezione diretta o suoi surrogati), di superare il bicamerismo, di correggere il titolo V della Costituzione, ma vorrei anche sommessamente osservare che dopo le esperienze degli ultimi anni in Italia e all’estero, l’insistenza sul maggioritario meriterebbe una attenta valutazione critica. Se non siamo in grado di ottenere un sistema elettorale a doppio turno, un sistema proporzionale di tipo tedesco mi sembra oggi la soluzione migliore.

Politica estera

Infine, la politica estera. Qui il problema più importante mi sembra quello degli assetti dell’Europa dopo la conclusione della guerra. L’idea di ammettere l’Ucraina nella Nato appare oltremodo pericolosa, la sua stessa adesione alla Comunità europea dovrebbe seguire le procedure e i criteri ordinari richiesti a tutti gli aspiranti.

Più in generale oggi l’idea stessa di Europa occidentale appare in discussione: la Polonia, e i Paesi Baltici sono orientati verso un’alleanza stretta con gli Stati Uniti e il Regno Unito, e lo stesso sta facendo l’Italia di Giorgia Meloni: atlantismo, antieuropeismo, autoritarismo interno. La leadership franco-tedesca appare in crisi. Non è una bella prospettiva. In questa situazione ogni ulteriore allargamento dovrebbe essere subordinato almeno al superamento del diritto di veto. Anche su questo il Pd, nuovo e vecchio dovrebbe interrogarsi e riflettere.

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