Prima il nord». Questa scritta campeggiava sul sito ufficiale del neo ministro leghista al turismo Massimo Garavaglia. Erano davvero urticanti quelle parole, al punto che la ribellione del web ha costretto alla loro rimozione.

La Lega è un’altra cosa rispetto al passato, eppure quello slogan ci rimanda a un passato che non vuole passare. Domandiamoci: quante volte questo slogan è risuonato negli ultimi anni? Sono parole vuote, buone per essere gridate in serate trascorse nelle bettole tra uomini avvinazzati. E perché mai prima il nord? Non si potrebbe dire: prima il sud? A dirlo a modo suo ci aveva già provato nel 1944 Antonio Canepa, un vulcanico e controverso antifascista siciliano, che ha dato alle stampe un libro dal titolo eloquente: La Sicilia ai siciliani. E io che sono calabrese non potrei dire: prima la Calabria? Ne avrei tutto il diritto visto come siamo stati trattati noi calabresi, da tempo immemorabile, anche da uomini ancora più al nord degli italiani del nord.

Faccio due esempi che cito da un bel libro edito da Rubbettino e scritto da Giovanni Sole, Le foglie di alisier. Calabria e calabresi dei diari di viaggio. Il primo: uno scrittore scozzese, Granfurd Tait Ramge, visita il Regno delle Due Sicilie e arrivato in Calabria descrive l’orrendo stile alimentare dei calabresi che, poveretti, non avevano l’abitudine di fare la prima colazione con finnan haddie affumicato come faceva lui tutti i giorni. Come dare torto a questo buongustaio. Ancora prima, in pieno medioevo, c’erano stati mercanti tedeschi che avevano guadagnato bei soldi e nel timore che arrivassero altri a intralciare i loro affari fecero «descrizioni terrificanti del carattere degli abitanti e così diffusero un pregiudizio che ancora oggi persiste in tutta la sua violenza». Intendiamoci, i calabresi non sono tutti fiori di campo, ci sono anche, come si direbbe con linguaggio antico, i pendagli da forca dei quali ho parlato in tanti miei libri.

Quale nord?

Ma ho divagato. Torniamo allo slogan «prima il nord». Apparentemente è innocuo e folcloristico, ma così non è. Seppure apparentemente superato, è espressione di una cultura che è stata egemone per un certo periodo, ed è ancora oggi largamente circolante, secondo la quale nelle scelte economiche, e in generale per tutte le scelte importanti, è necessario anteporre il nord.

Ma di quale nord si parla? Un tempo, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento c’era il famoso “triangolo industriale” che comprendeva la vasta area di Torino, Milano e Genova che aveva attratto imponenti masse di contadini del sud e del Veneto (sì, allora si emigrava anche dal Veneto) che, trasformati in operai, con il loro lavoro faticoso e a volte terribile (la catena di montaggio o le presse, o i fonditori, forgiatori, saldatori, tornitori, battilastra), hanno arricchito il nord e trovato un lavoro dignitoso. Ma oggi non c’è più un nord compatto come allora, si è sfrangiato e frazionato al suo interno, tanto che si parla di nord est e di nord ovest.

Oggi il nord, diversamente dal passato, non è il «motore dello sviluppo del paese» come scriveva Giuseppe Berta nel suo volume La via del nord. Dal miracolo economico alla stagnazione. «Ora il più solido stereotipo del nord – il pensare sé stesso come area forte tra le aree forti d’Europa – semplicemente non esiste più, dissolto come le virtuose pratiche civili di cui si credeva un tempo depositario».

Dunque, bisogna cambiare paradigma e scegliere un’altra via che non può essere quella tanto cara ad alcuni presidenti di regioni del nord che si stanno battendo per far approvare l’autonomia differenziata che altro non è, come è stato da molti paventato, che una secessione dei ricchi.

Seppure la proposta di Stefano Bonaccini, che è del Pd, sia diversa da quella dei leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia, la sostanza non cambia e i timori non sono per niente scomparsi. Il caos durante la pandemia, le mille voci dei presidenti di regione, i fallimenti della sanità in Lombardia hanno messo a nudo la irragionevolezza di una tale politica che maschera una tendenza antica, rinunciare a pensare al paese come un organismo unitario.

È una tendenza che è possibile rintracciare sin dalle origini dell’unità d’Italia quando i governanti di allora, le forze liberali del tempo, in gran parte settentrionali o cresciuti in Piemonte perché esuli, scelsero la «radicale “rinunzia” a utilizzare nel processo di ammodernamento del paese le potenziali risorse umane, economiche, politiche ed intellettuali del Mezzogiorno» come ha scritto Rosario Villari nel suo Il sud nella storia d’Italia. I danni che tale politica ha prodotto sono sotto gli occhi di tutti.

Prima il nord! E perché mai? Quali titoli può vantare il nord per rivendicare questo privilegio? Certo, può dire di essere la parte più ricca del paese. È vero, ma rendere ancora più opulenta la parte più ricca del paese immaginando che la restante parte se ne avvantaggerà è una scelta assolutamente sbagliata come dimostra la teoria dello sgocciolamento tanto cara ai liberisti, convinti che i benefici per i ceti più abbienti favoriscano in modo automatico i poveri.

Mafie e tangenti

Uno che di poveri se ne intende, papa Francesco, ha criticato con chiarezza questa teoria. E la storia di questi ultimi decenni si è incaricata di seppellirla sotto una serie di pesanti fallimenti. Il nord ha perso i titoli che un tempo poteva vantare. Milano da capitale morale è diventata Milano da bere e dopo Tangentopoli, comunque la si pensi su quella stagione, non ha più avuto la forza, la capacità e forse anche l’orgoglio di riprendersi se non, per un breve periodo, durante l’Expo.

La corruzione, che sembrava relegata al sud, è esplosa al nord in modo clamoroso. Giancarlo Galan e Roberto Formigoni rispettivamente presidenti della regione Veneto e della regione Lombardia sono stati definitivamente condannati per corruzione. Il consiglio regionale della Lombardia durante la presidenza Formigoni è stato sciolto dopo l’arresto dell’assessore Domenico Zambetti accusato di aver pagato i voti ottenuti dagli uomini della ‘ndrangheta. Pochi giorni fa Zambetti si è consegnato in carcere perché la corte di Cassazione ha confermato la sentenza di condanna a suo carico.

La ‘ndrangheta da decenni si è insediata al nord dove è stata accolta a braccia aperte da solerti imprenditori. Ivano Perego, imprenditore lombardo originario di Cantù, ha trasformato la sua impresa edile, la Perego Strade che era la seconda per importanza in Lombardia, in una «stazione appaltante della ‘ndrangheta» come l’ha definita il giudice Giuseppe Gennari che ha descritto l’esistenza di «una vera e propria società mafiosa, con una diretta partecipazione sociale di capitale mafioso». Per anni siamo stati in tanti a indicare i pericoli di una penetrazione e di un insediamento della ‘ndrangheta in Lombardia e abbiamo fatto fatica a superare una riottosità diffusa ad affermare che la mafia c’era anche a quelle latitudini.

La vicenda di Mirco Salsi, imprenditore originario di Reggio Emilia, titolare della Reggiana Gourmet srl, è la storia paradigmatica del comportamento di un imprenditore reggiano e dei mutamenti intervenuti in questo settore produttivo. Nelle carte dell’operazione Aemilia c’è il racconto di un imprenditore che cerca con la classica leva della corruzione di ottenere un appalto, e poi di usufruire dei servizi criminali offerti dalla ‘ndrangheta per recuperare un credito per una cifra importante; emerge il quadro di un’economia locale dove le tanto decantate regole del mercato sono aggirate e non esistono più, e dove corruzione e ‘ndrangheta si danno la mano e intervengono come agenti economici utilizzati per alterare il mercato e determinare condizioni di vantaggio illegale e criminale in favore di un soggetto dotato della capacità di corrompere. Questo è accaduto nella mitica Padania tanto amata dai leghisti duri e puri.

E se dalla pianura ci spostiamo in montagna troviamo anche lì una situazione particolare. Andiamo in Valle d’Aosta, la «Valle di Heidi, dove la mafia non esiste» come scrive Roberto Mancini un giornalista che ha raccontato la presenza mafiosa nella regione. Qui si sono realizzate condotte criminali come il voto di scambio politico-elettorale che avrebbe coinvolto (tutto è ancora da provare) cinque uomini politici tra i quali tre ex presidenti della regione; e c’è anche il primo consiglio comunale sciolto per mafia, Saint-Pierre. In Veneto stanno aumentando le interdittive antimafia ed è un fenomeno importante perché le inchieste degli ultimi anni sono particolarmente significative dal momento che il Veneto è la regione che «è stata a lungo quella meno interessata alle inchieste sulla presenza di gruppi mafiosi» come hanno ricordato Gianni Belloni e Antonio Vesco in un libro curato da Rocco Sciarrone Mafia del nord. Strategie criminali e contesti locali.

Crollo etico

La presenza mafiosa non è frutto del caso, ma di precise scelte di settori importanti dell’economia del nord e della caduta di valori e di moralità di professionisti che si sono prestati ad aiutare i mafiosi. Insomma, il modello costruito al nord ha mostrato falle e crepe importanti come hanno evidenziato altri fatti: la produzione di rifiuti tossici smaltiti illegalmente dalla criminalità che li interra e li nasconde in capannoni nelle campagne settentrionali per poi incendiarli (basta seguire gli incendi per avere la mappa dei rifiuti tossici di questo tipo); la massiccia presenza degli interessi privati nel comparto sanitario che ha accumulato profitti dal settore pubblico, ma non ha dato una mano significativa durante la crisi pandemica in corso; l’inquinamento determinato dall’uso dissennato e abnorme degli allevamenti animali intensivi.

È vero, il nord è la parte più ricca del paese, ma i fatti prima indicati confermano che aiutare i ricchi non è la politica migliore; essi non sono gigli immacolati perché Anche i ricchi rubano come recita il titolo di un libro di Elisa Pazé. E allora pensare di privilegiare «prima il nord» nella distribuzione dei fondi del Next Generation Eu, prima che una scelta sbagliata è un autentico delitto.

La crisi pandemica ha colpito l’Italia mentre stava riprendendosi dagli effetti della crisi finanziaria del 2008 e dalla recessione che è stata devastante e ha colpito prevalentemente i più deboli, i poveri il cui numero è aumentato in modo impressionante, i soggetti meno protetti, i giovani molti dei quali non lavorano e non vanno a scuola o l’hanno abbandonata, le donne, il Mezzogiorno le cui distanze rispetto al nord sono aumentate.

E allora è in queste direzioni che bisogna investire per colmare il divario perché il permanere di questa situazione non conviene a nessuno, neanche alle aree forti e più produttive del nord. Le scelte di politica economica devono essere ancorate a un’idea di paese che punti a realizzare dopo 160 anni dall’unità d’Italia, che è stata una grande conquista diplomatica e politica, l’unità sociale e territoriale dell’Italia intera. È un compito storico che ricade sulle spalle del governo e delle classi dirigenti; tutte, nessuna esclusa. In questo scenario più ampio è necessario arrivare a digitalizzare il Mezzogiorno, realizzare e completare le infrastrutture vitali, “rammendare” le aree interne per evitarne lo spopolamento, intervenire sui mali endemici della sanità che non derivano solo dalla corruzione, riorganizzare l’agricoltura in senso ambientale, investire in settori produttivi.

È difficile, lo so, ma dobbiamo indirizzare parte consistente dei fondi a ridurre e colmare disparità territoriali, disuguaglianze sociali e di classe avendo come obiettivo la riconversione ecologica dell’economia. Non vorrei che «prima il nord» significasse fondi per lo sviluppo del settentrione e fondi al sud per rinverdire canali di assistenza che altro non sono che una forma aggiornata dell’elemosina.

È ancora più difficile, so anche questo, rinnovare e cambiare radicalmente le classi dirigenti meridionali che hanno criticità e una scadente qualità. Ma ne abbiamo urgente bisogno. E bisogna sapere che non ci sarà più un’occasione come questa.

© Riproduzione riservata