Disoccupazione e riarmo, se i numeri influenzano la percezione sociale e la politica

Nelle economie contemporanee, la statistica non è soltanto uno strumento tecnico di rilevazione: è una delle infrastrutture fondamentali attraverso cui gli stati osservano, classificano e rappresentano la società; e proprio per questo, i numeri non sono mai neutri. La loro forza non deriva dalla presunta oggettività con cui descrivono il mondo, ma dal ruolo che assumono nell’organizzazione dell’azione pubblica e nella costruzione del consenso attorno a determinate politiche economiche. La statistica, insieme al sistema tributario e alla sovranità monetaria, costituisce uno dei pilastri dello stato moderno. È attraverso classificazioni condivise, serie storiche e indicatori comparabili che società complesse possono decidere, pianificare, allocare risorse. Ma questa infrastruttura cognitiva è il risultato di un compromesso permanente tra esigenze amministrative, convenzioni teoriche e scelte politiche. Come osservava Desrosières, la statistica non si limita a descrivere: crea il vocabolario con cui la realtà viene resa leggibile. Ma la questione non riguarda solo la rappresentazione della realtà. Keynes aveva già richiamato l’attenzione sulla natura eterogenea di grandezze come produzione o reddito, mettendo in dubbio la possibilità di confrontarle in modo del tutto coerente nel tempo. In fondo, ogni misurazione presuppone un’unità comune, ma economie complesse producono beni e servizi diversi e che cambiano di continuo. Un quarto dei contribuenti paga quasi tutta l’Irpef. E le sanatorie sono controproducenti Lavoro e spese militari Il caso della disoccupazione è emblematico. Nel linguaggio pubblico, il tasso di disoccupazione appare come una grandezza stabile, un termometro univoco del mercato del lavoro. In realtà, dietro questo numero si stratificano decenni di revisioni metodologiche: dalla definizione più restrittiva adottata negli anni Ottanta (ricerca attiva e disponibilità immediata) al criterio dell’almeno un’ora lavorata introdotto successivamente, che riduce automaticamente la platea dei disoccupati ufficiali. A ciò si aggiungono gli scoraggiati, gli inattivi potenziali, i sottoccupati, che rimangono ai margini delle statistiche principali pur rappresentando una parte crescente delle fragilità occupazionali. Come la recente storia d’Italia ci insegna, la conseguenza è che il tasso di disoccupazione può restare basso mentre la qualità del lavoro si deteriora e la precarietà aumenta. La misura migliora sotto il profilo tecnico, ma diventa meno rappresentativa del disagio economico reale. Lavoro a tempo, così l’Italia è diventata l’avamposto della precarizzazione Processi analoghi emergono nel campo della spesa militare: gli armamenti sono stati riclassificati come «formazione lorda di capitale fisso», al pari dei beni capitali produttivi nel 2010. Si tratta di una scelta che risponde a criteri contabili legati alla durata pluriennale dei beni, ma introduce una forzatura concettuale: un carro armato non genera flussi di valore futuro come un macchinario industriale, né contribuisce alla capacità produttiva del sistema. Eppure, la sua riclassificazione come investimento aumenta il tasso di accumulazione del paese e restituisce un’immagine più dinamica dell’economia. Invecchiamento, disoccupazione, neet: l’incapacità di affrontare le sfide reali Condizionare le aspettative I dati statistici una volta pubblicati condizionano le aspettative e quindi la stessa società: le imprese che adeguano i listini all’inflazione attesa, i lavoratori che orientano le richieste salariali, i governi che modulano investimenti e politiche fiscali sulla base di Pil potenziale, output gap o tasso di disoccupazione. Tutti reagiscono ai numeri, trasformandoli in strumenti che non si limitano a registrare la realtà, ma la producono. È questo il potere performativo delle statistiche: la loro capacità di influenzare i comportamenti economici e, quindi, di realizzare ciò che anticipano. La forza dei numeri non deriva dalla loro natura scientifica, ma dalla loro funzione istituzionale. Come ricorda Porter, la quantificazione consente di prendere decisioni “a distanza”, senza dover ricorrere a valutazioni personali o a processi negoziali apertamente politici. L’apparente neutralità dell’indicatore sostituisce la discussione sul merito delle scelte: un deficit “eccessivo”, un investimento “basso”, una disoccupazione “contenuta” diventano categorie che orientano il dibattito, ancor prima di essere oggetto di valutazione critica. Per questo è necessario sviluppare una consapevolezza più matura del ruolo delle statistiche nella vita pubblica. Una lettura critica non ne sminuisce l’importanza, ma permette di capire che ogni indicatore ha una storia, una logica interna, un perimetro e, soprattutto, dei limiti. I numeri sono indispensabili, ma non autosufficienti. I numeri contano, ma non dicono tutto. Sta a noi riportare alla luce ciò che le convenzioni numeriche tendono a nascondere.