Mancano meno di due mesi all’inizio dei negoziati per il clima di Glasgow, data di partenza il primo novembre, ma la conversazione tra associazioni, Ong e attivisti al momento è: dovrebbe esserci ancora questa Cop26 per il clima oppure è il caso di rinviare tutto, di nuovo, per il secondo anno consecutivo?

La conferenza globale del 2020 era stata spostata al 2021 a causa della seconda ondata di pandemia in corso e questa settimana un network di attivisti ha chiesto di spostare anche quella del 2021 al 2022 per la disuguaglianza nella distribuzione dei vaccini (in Africa sono arrivati a meno del 3 per cento della popolazione), per il caos legato alle quarantene per i paesi nella lista rossa britannica e per i costi logistici che le delegazioni più deboli sono costrette a sobbarcarsi.

La domanda di fondo è: come può una conferenza globale il cui obiettivo è abbattere le disuguaglianze climatiche (uno dei focus principali di questa edizione saranno i fondi di finanza climatica destinati ai paesi più vulnerabili) svolgersi in una situazione di accesso così disuguale?

Gli ostacoli

Era un argomento del quale si discuteva sotto traccia da mesi, aveva preso posizione anche Greta Thunberg in primavera, ora è toccato al Climate Action International sollevare pubblicamente il tema. La rete parla a nome di un gruppo nutrito e influente di organizzazioni, tra queste Greenpeace, Wwf, Oxfam, Amnesty International, Rainforest Alliance. «È evidente che al momento una conferenza sul clima sicura, inclusiva e autenticamente globale non si potrà tenere a inizio novembre, perché di fatto escluderebbe troppi tra delegati governativi, membri della società civile e giornalisti provenienti dai paesi del sud globale, molti dei quali sono sulla lista rossa Covid 19 del Regno Unito».

Non ci sono solo i livelli di vaccinazione a preoccupare gli attivisti, ma anche i costi insostenibili degli alloggi nella città di Glasgow durante il periodo della conferenza: un albergo tre stelle in città oggi offre da listino una stanza singola a 13mila euro per le dodici notti della Cop.

E poi ci sono le tortuose regole britanniche per la quarantena, che di fatto raddoppiano i costi per i paesi più poveri: quasi ogni stato dei 62 sulla lista rossa britannica di chi deve sottoporsi ai dieci giorni di quarantena in hotel è un paese in via di sviluppo. Sono ostacoli che rischiano di escludere o indebolire da un punto di vista diplomatico i paesi più vulnerabili nell’evento più importante sul clima degli ultimi cinque anni.

In presenza e online

Tutto questo è un gran pasticcio per il governo di Boris Johnson, che sulla riuscita della Cop26 (co-organizzata dall’Italia, per altro, sempre più invisibile in questi scenari) si gioca una buona parte della sua credibilità internazionale. Le misure messe in campo dal Regno Unito per rispondere a questo appello sono: pagare la quarantena in albergo a delegati e giornalisti e far partire una campagna di vaccinazione con AstraZeneca per chiunque sia interessato.

Di un altro rinvio però non vogliono assolutamente sentir parlare, «L’evento è stato già spostato una volta, ma sappiamo tutti troppo bene che il clima non si è preso una pausa», ha detto Alok Sharma, il ministro britannico plenipotenziario sulla Cop. L’alternativa sarebbe trasferire tutto online, una scelta che però indebolirebbe dei negoziati che si annunciano già delicati e niente affatto facili. L’alternativa - verso la quale sembra orientato il Regno Unito - è un evento ibrido tra incontri in presenza e possibilità di partecipare in digitale alle sessioni.

© Riproduzione riservata