Un cavo traente che non veniva sostituito da oltre vent’anni. E poi uno o due “forchettoni” messi appositamente per bloccare il freno di emergenza dell’impianto di risalita. Quando il cavo si è spezzato, la cabina ha continuato a scivolare ed è precipitata a valle: così questo 23 maggio sono morte 14 persone sulla funivia Stresa-Mottarone. Secondo la Procura di Verbania, a causa di «una scelta consapevole dettata da ragioni economiche». Le gravissime responsabilità individuali dei gestori dell’impianto verranno accertate in sede giudiziaria, intanto l’ennesima tragedia delle infrastrutture di trasporto italiane dovrebbe invitarci a riflettere sulla natura di quelle ragioni economiche. Perché non è certo soltanto sulle montagne del Piemonte che il calcolo dei costi e dei benefici porta a conseguenze fatali per la vita umana.

Quali incentivi disfunzionali operano dietro all’atto criminale di sabotare un sistema frenante? Li aveva analizzati in lungo e in largo il sociologo Christian Morel, mostrando che i protocolli di sicurezza aeronautica vengono sistematicamente infranti (e le trasgressioni occultate) perché gli operatori non riescono a lavorare senza allontanarsi dalle regole. Nel caso del Mottarone, si direbbe che senza allontanarsi dalla regole non fosse possibile garantire il servizio e quindi generare profitto. Che si trattasse di disperazione oppure di avidità il risultato è lo stesso, ed è indistinguibile da quello di un'esplicita intenzione terroristica.

Un incidente è sempre il prodotto di una somma di fattori, errori e negligenze che restano invisibili fintanto che una coincidenza non li unisce in una catastrofe. Ma per ogni catastrofe quanti altri cavi malandati attraversano il paese, quanti impianti vetusti, quanti protocolli ignorati pur di risparmiare, quante “ragioni economiche”?

Dal crollo del ponte Morandi a quest’ultima strage, quelle che ci appaiono di volta in volta come delle fatalità sono invece sintomi di un problema più grande, sistemico, con il quale dovremo confrontarci sempre più spesso in futuro: quello di una società che ha ereditato più infrastrutture di quante non sia capace di gestirne.

Agli anni del miracolo economico è seguito il lungo inverno del declino, e questo enorme parco di strade, edifici, canalizzazioni in rovina bisogna in qualche modo impedire che ci uccida.

Delegare a concessionari privati la manutenzione poteva sembrare un buon modo per esternalizzare costi e rischi ormai insostenibili, ma far dipendere la sicurezza dalle leggi del mercato pone di tutta evidenza ulteriori problemi.

Dobbiamo abituarci a vivere in un mondo che cade a pezzi? Dobbiamo accettare i ponti che crollano, le funivie che precipitano, il lento decadimento delle infrastrutture costruite negli anni del Boom?

A meno di un sussulto di “ripresa e resilienza”, questo sembra essere il destino del capitalismo italiano, spesso ridotto a contrastare la caduta del saggio di profitto con soluzioni spietate. Come un animale morente, a dare il suo ultimo colpo di coda.

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