Non è il tempo delle ideologie assertive, ma quello di una riflessione progettuale rigorosa, capace di formulare – in modo consapevole e articolato – le domande giuste. Solo così potremo costruire un orizzonte condiviso che non eluda il conflitto, ma lo assuma come motore della trasformazione.
Pur senza voler trarre conclusioni scoraggianti circa l’esito dei recenti referendum – il cui significato andrebbe comunque interpretato con prudenza – è opportuno riprendere una distinzione teorica tuttora decisiva per comprendere la realtà sociale: quella tra classe in sé e classe per sé.
Formulata da Karl Marx, ma in parte già anticipata da Adam Smith e ancor più profondamente radicata nella filosofia di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, questa distinzione conserva oggi una forza euristica che va ben oltre il contesto storico in cui è stata elaborata.
La classe in sé designa una condizione strutturale, oggettiva: una posizione determinata nei rapporti di produzione, esistente anche in assenza di una consapevolezza soggettiva. La classe per sé, invece, rappresenta un salto qualitativo, che implica la trasformazione di quella condizione oggettiva in coscienza collettiva, in identità storicamente costruita.
Essere e coscienza
Tale passaggio – centrale nella dialettica hegeliana tra essere e coscienza, tra realtà e concetto – è proprio ciò che consente a una soggettività collettiva di emergere come agente storico. Per Hegel, infatti, la libertà si realizza solo quando il soggetto riconosce sé stesso nella totalità storica; Marx riprende questo impianto, traducendolo in termini materiali e sociali: una classe non esiste per sé finché non prende coscienza del proprio ruolo nel processo storico e produttivo.
In questo senso, la categoria di classe sociale non può dirsi superata, né tanto meno scomparsa, come spesso si afferma in modo affrettato. Al contrario, essa resta uno strumento analitico imprescindibile per leggere le disuguaglianze, i conflitti e le trasformazioni del nostro tempo. Che la sua visibilità appaia oggi affievolita non è segno della sua irrilevanza, ma del ritardo – o della complessità – con cui una classe in sé riesce a costituirsi come classe per sé. E un esito referendario – per quanto significativo – non basta a decretarne la fine. Piuttosto, ci ricorda quanto sia lungo, tortuoso e mai garantito quel processo di soggettivazione collettiva.
Meno certezze e più domande
A questa riflessione sulla struttura sociale si affianca un secondo elemento, più metodologico ma altrettanto cruciale: la revisione delle cornici interpretative con cui affrontiamo la realtà contemporanea. Già l’economista Paolo Sylos Labini aveva proposto una gerarchia disciplinare in cui l’economia occupava il centro analitico, seguita – in ordine di rilevanza – da sociologia, demografia e scienza politica. Questo schema rifletteva un ordine delle priorità volto a spiegare i fenomeni sociali a partire dai loro determinanti economici.
Oggi, tuttavia, questo impianto rischia di risultare troppo rigido. Le trasformazioni recenti – dalla crisi delle rappresentanze politiche alla frammentazione del lavoro, fino all’emergere di nuove forme di soggettività sociale – impongono un approccio più integrato. Alle scienze sociali classiche è necessario affiancare la psicologia collettiva e cognitiva, capace di illuminare i meccanismi percettivi e simbolici con cui si forma la coscienza sociale; ma anche la filosofia, nella misura in cui consente di interrogare criticamente le categorie stesse attraverso cui interpretiamo il mondo.
In particolare, la lezione hegeliana ci ricorda che nessuna configurazione sociale può essere compresa se non si tiene conto del suo divenire, della sua storicità interna, del movimento che la attraversa e la trasforma.
In altre parole, ci troviamo in una fase storica in cui servono meno certezze e più domande. Non è il tempo delle ideologie assertive, ma quello di una riflessione progettuale rigorosa, capace di formulare – in modo consapevole e articolato – le domande giuste. Solo così potremo costruire un orizzonte condiviso che non eluda il conflitto, ma lo assuma come motore della trasformazione.
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