La frase che rimarrà, il «Whatever it takes» ecologista di Mario Draghi, è ovviamente questa: «Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta». Quella più importante però era arrivata qualche minuto prima. «Ogni spreco è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti». Draghi l'ha pronunciata nel contesto del debito pubblico, parlando di investimenti da fare al meglio e di risorse scarse, ma lo spreco di una risorsa presente vista come sottrazione di diritti futuri è un programma di governo ben più che monetario, è un manifesto.

Il destino ecologico dell'Italia oggi è affidato a un uomo che non ha un passato ecologista, ma che ha dimostrato di saper cogliere il senso dei passaggi storici improcrastinabili.

Il «Whatever it takes» pronunciato nel 2012 non era solo il capo di una banca centrale che faceva la cosa giusta dal punto di vista finanziario, ma la risposta globale a una domanda di cambiamento. L'ambientalismo di oggi ha lo stesso significato: un appuntamento con la storia.

Oltre il 2026

Il programma ambientale esposto da Draghi al Senato è fatto di tre orizzonti temporali, tutti ben oltre il limite di questa legislatura. Il primo è il 2026, anno finale del Next Generation EU, quando dovremo aver speso interamente e bene i fondi per ripartire, più di un terzo dei quali per progetti di impatto ecologico.

Il secondo è il 2030, entro il quale l'Italia, come ogni paese dell'Unione Europea, si è impegnata a ridurre le emissioni di CO2 del 55 per cento. Il terzo è il 2050, quando le emissioni di CO2 della nostra economia dovranno essere arrivate a zero.

Mario Draghi è il debuttante più anziano alla presidenza del Consiglio nella storia italiana, il suo mandato coprirà al massimo un biennio, ma nel suo primo discorso al parlamento ha posto il limite della sua azione politica per l'ambiente a quasi tre decenni da oggi, quando lui non ci sarà più e i suoi figli saranno anziani.

Sono orizzonti facili da enunciare per l'Onu o l'Unione Europea, più complessi da usare come riferimento nella pratica parlamentare quotidiana.

Draghi sa di dover navigare le ristrettezze del presente, ma ha ribadito che il suo piano per il clima è intergenerazionale, con un senso di ricostruzione e dopoguerra, a favore di figli e nipoti, «nella speranza che ci ringrazino».

Il cambio di tono

18 April 2020, Brandenburg, Jacobsdorf: An employee of the Beckmann agricultural company drills maize into the dry soil and kicks up a lot of dust (aerial photo with a drone). Photo by: Patrick Pleul/picture-alliance/dpa/AP Images

Non si potrà che valutare sul campo cosa riuscirà a fare, ma a livello retorico il respiro ambientalista della politica italiana non era mai stato così lungo e questa è senz'altro una novità. Il suo debutto politico è stato più enunciazione di visione e metodo che contenuti specifici.

La «sfida poliedrica» che ha presentato non riguarda solo la transizione energetica, ma anche fragilità idrogeologica, biodiversità, protezione dei territori, turismo, e dovrà fare ricorso a digitale, educazione, cloud computing.

L'ecologia è stato uno dei temi portanti del discorso al Senato, insieme alla lotta contro il virus, alla sanità, all'istruzione, alla parità di genere.

La chiave politica è questa: l'ambientalismo oggi per l'Italia deve essere come l'atlantismo e l'europeismo, un nuovo pilastro dell'unità nazionale chiesta al parlamento e un elemento centrale della nostra collocazione internazionale, qualcosa che si può discutere solo mettendosi ai margini della sfera pubblica.

Draghi ha ricordato in coda al discorso, appena prima del climax finale sull’amore per l’Italia, i due impegni internazionali del 2021, entrambi con una chiave green.

Prima la presidenza del G20, che ha come parole d'ordine «People, Planet, Prosperity» e che «coinvolgerà tutta la compagine di governo».

Questi tre concetti, ha suggerito ai suoi ministri tecnici e politici, devono essere i vostri concetti. E poi il ruolo di co-organizzazione della Cop26, anticipato dall'evento Youth4Climate di Milano. Incontri che «l’Italia avrà la responsabilità di guidare», per «ricostruire e ricostruire meglio».

Quale crescita

La sfida di Draghi è sminare una linea di conflitto che sul tema tenderà a gonfiarsi nei prossimi mesi tra le litigiose forze della maggioranza. Il «nuovo modello di crescita» implica decisioni politiche, ci sarà da scontentare grandi aziende, settori dell'economia e parti della società.

La Francia, che politicamente e istituzionalmente ha avviato la transizione ecologica quattro anni prima dell'Italia, è un esempio delle tensioni che rischiano di svilupparsi quando dalle parole si passerà non solo a investimenti ma a obblighi, limiti e nuovi stili di vita. E in quest'ottica sono importanti due passaggi in apparenza politicamente scarichi del suo discorso.

Il primo è il richiamo all'ecologia integrale, con la quale nella enciclica Laudato si' del 2015 Papa Francesco ha definitivamente schierato la chiesa cattolica sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici.

La difesa del creato

I partiti di destra della maggioranza arrivano all'appuntamento con la transizione ecologica poveri di strumenti per affrontare il tema e soprattutto raccontarlo ai propri elettori.

«Ambientalismo senza ideologie», aveva chiesto Matteo Salvini durante le consultazioni. Se non un'ideologia, almeno una cornice di pensiero serve, per orientarsi ed essere coinvolti.

Draghi, da allievo di gesuiti, l'ha indicata con discrezione: la difesa del Creato. Se non potete ispirarvi a Greta Thunberg, ascoltate il pontefice.

Il secondo elemento è il richiamo allo spopolamento delle aree interne, tema che è stato patrimonio della sinistra (basti pensare al lavoro di Fabrizio Barca) ma che può diventare potabile anche a destra, in chiave di difesa di agricoltura (una delle attività più colpite dal cambiamento climatico), tradizioni, identità biologiche e culturali. Se non potete farlo per l'atmosfera, che non ha confini e quindi sfugge a letture sovraniste, fatelo per il suolo e la terra. 

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