Il 6 maggio nel Regno Unito si riaprono le urne. Si tratta di un appuntamento elettorale senza precedenti: oltre al rinnovo del parlamento scozzese e gallese, del sindaco e dell’assemblea di Londra, turni previsti l’anno scorso e rimandati a causa della pandemia, si vota per eleggere 8 sindaci delle città metropolitane fra cui Liverpool, Greater Manchester e con le suppletive nel collegio laburista di Hartlepool si sceglierà anche un nuovo parlamentare per la Camera dei Comuni.

A parte il Nord Irlanda, praticamente tutto il corpo elettorale britannico è chiamato ad esprimersi. Un segnale di normalità per un paese che si sente sempre più ‘decovidizzato’ e, sebbene storicamente le elezioni amministrative non vengano considerate un momento di verifica per la maggioranza parlamentare o per il governo, in questo tornante assumono tuttavia un indubbio valore politico.

Il primo voto dopo la Brexit

Le implicazioni sono numerose e si incontrano (o scontrano) in questo ‘super Thursday’: al primo voto dopo la Brexit e al primo vero test elettorale per il Labour post-Corbyn, giovedì si andranno a sommare la questione scozzese rafforzata non soltanto dalla presenza di un nuovo partito secessionista, Alba, fondato dall’ex leader dello Scottish National Party e in aspra contrapposizione con la sua ex-delfina e primo ministro scozzese in carica Nicola Sturgeon, ma a complicare la situazione ora anche la campagna Europe for Scotland lanciata da un gruppo di intellettuali per il ‘rientro’ del paese nell’Ue.

Alle ‘tradizionali’ tensioni indipendentiste, poi, si affianca in queste elezioni la sfida lanciata da una pletora di nuove piccolissime formazioni o ambientaliste-radicali come il Burning Pink, un fenomeno hipster londinese, o progressiste-secessioniste, che chiedono la separazione del nord dell’Inghilterra dall’egemonia e centralizzazione di Londra come il Northern Independence Party, o ‘tradizionalmente’ populiste no-vax e qualunquiste di vari gradi e misure che denunciano la ‘dittatura della mascherina’ – ebbene sì, esistono anche in Gran Bretagna – come la Freedom Alliance. Oppure libertarie-snob che si battono contro la cosiddetta ‘cancel-culture’ o ‘woke-culture’ come il Reclaim Party fondato dalla star televisiva Laurence Fox.

Una sorta di ‘reazione’ si potrebbe ritenere, anche nell’accezione ideologica ottocentesca del termine, non solo alle pressioni culturali imposte dal movimento Black Lives Matter, anch’esso peraltro declinatosi nel Take The Initiative Party, che fa sembrare la destra tradizionale di Britain First e lo UKIP e il Brexit Party, il nuovo spin-off scissionista di Nigel Farage, ormai vecchi partiti dell’establishment inglese (!), ma che ripropone anche le più tradizionali tensioni economiche e politico-identitarie fra il cosmopolitismo londinese e i territori delle periferie, fra il ricco e dominante sud e un nord storicamente escluso dalla redistribuzione materiale e politica.

Quanto conta la pandemia 

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Resta chiaro, naturalmente, che a corollario di tutto c’è sempre la pandemia. Ma la gestione della crisi sanitaria e lo straordinario successo della campagna vaccinale, sebbene facciano da coagulante di tutta questa serie di piccolissime formazioni di protesta, non sono tuttavia il terreno principale di scontro.

Non soltanto questo sarà il primo voto post-Brexit e quindi un test per il partito conservatore di Boris Johnson, ma allo stesso tempo il primo vero collaudo elettorale per il nuovo leader dell’opposizione, Keir Starmer, che se può guardare con sufficiente serenità a Londra dove tutti i sondaggi danno il sindaco Sadiq Khan per riconfermato, la situazione nel resto del paese non appare così rosea.

Da un lato, dunque, il partito conservatore cerca la conferma ai consensi ottenuti nelle zone rurali e Boris Johnson, come promesso all’ultimo congresso, intende dimostrare di riuscire a tenersi il red wall, le zone fra lo Yorkshire e le Midlands a nord dell’Inghilterra storicamente laburiste ma che si son rifiutate di votare per Jeremy Corbyn nel 2019.

Quanto questo sia dipeso dalla flebile leadership di Corbyn che paradossalmente è stato percepito come esponente dell’establishment londinese oppure, come sostengono i duri e puri corbynisti che resistono ancora dentro il Labour, la débâcle è legate alla posizione anti-Brexit del partito e alla titubanza mostrata da Corbyn stesso nel non abbracciare convintamente l’antieuropeismo che, almeno secondo i dati del referendum, domina nel nord del paese, non lo si capirà col voto di giovedì. Nondimeno, la Brexit giocherà un ruolo centrale il prossimo 6 maggio, e non soltanto per quanto riguarda la questione scozzese.

Il sistema elettorale forzatamente maggioritario con cui si vota sul territorio inglese (in Scozia, Galles e per la London Assembly si applica un sistema misto) non darà molto scampo alle nuove formazioni e farà evaporare le ambizioni più o meno rilevanti provenienti da questo fermento. Tuttavia, tale vivacità è un segnale della fase trasformativa – e uso qui l’aggettivo in senso neutro – che la politica inglese post-Covid sta vivendo e che credo non debba essere sottovalutata. Se e come queste formazioni siano una possibile traduzione del populismo e delle pressioni dal basso congelate non soltanto dalla pandemia ma anche dal discorso totalizzante della Brexit, lo si vedrà anche a partire dai risultati di venerdì.

È chiaro però che, sebbene ormai la partita fra pro- e contro- EU sia chiusa con la sconfitta definitiva dei remainers, la Brexit sta rientrando nella politica britannica con altro nome e in altra forma, declinata nel confronto più o meno violento fra gradazioni diverse di ‘sovranismi’ territoriali, identitari o culturali.

I primi segnali sono già emersi in Nord Irlanda con le tensioni di inizio aprile che hanno portato alle dimissioni di Arlene Foster, leader del partito unionista e fino a mercoledì anche primo ministro nel parlamento di Stormont. E non va dimenticato come anche l’indipendentismo scozzese ne sia una manifestazione. Insomma, indirettamente, la Brexit sta ‘vegliando’ su queste elezioni.  

Gli scandali di Johnson

Britain's Prime Minister Boris Johnson, right, with partner Carrie Symonds, on their way to meet veterans after the Remembrance Sunday service at the Cenotaph, in Whitehall, London, Sunday Nov. 8, 2020. (Chris Jackson/Pool Photo via AP)

A dare infine un ulteriore elemento di colore alla campagna elettorale ci ha pensato, seppur involontariamente, il primo ministro. Potrà sembrare quasi ingenuo il piccolo scandalo su chi ha ‘realmente’ pagato la ristrutturazione voluta dalla fidanzata Carrie Symonds dell’appartamento all’11 di Downing street in cui la coppia risiede. Si tratta di una cifra francamente minima rispetto ai numeri tondi a cui siamo abituati noi italiani: 58 mila sterline donate da un sostenitore al partito conservatore, ma non notificate alla Commissione per le spese elettorali, che sarebbero andate a contribuire alle spese di oltre 200 mila sterline per tappeti e mobili (ma il costo totale non è stato ancora reso pubblico).

Il punto, ovviamente, non è tanto l’ammontare della cifra, ma la sostanza dello scambio politico non reso pubblico: “”cash for curtains”, cioè contanti in cambio di tende, come ha riassunto il leader dell’opposizione ai Comuni nel consueto Question Time. Ma non soltanto.

I commenti di Carrie Symonds sull’arrendamento lasciato dal precedente inquilino, Teresa May, descritto come quello piccolo-borghese senza stile che si compra da John Lewis, così come l’aggressiva e superficiale approssimazione con cui Johnson stesso ha affrontato finora il problema stanno trasformando la stravaganza, che era un tratto umano e politicamente vincente del Johnson sindaco di Londra, in snobismo insensibile e fuori contesto per un leader politico nazionale post-Covid.

Peraltro non è neppure la prima volta che Johnson si dimostra non all’altezza della situazione; basta ricordarsi i commenti all’inizio della pandemia. L’episodio sta inaspettatamente montando, e non soltanto su Twitter con #borisflat e #CarrieAntoinette a commento del dubbio design country-chic nostalgico-imperialistico scelto dalla fidanzata. I sondaggi registrano qualche movimento tellurico nel solido consenso che i tories sembravano essersi assicurati grazie al vaccino; una insperata fortuna per Starmer che pare comunque già rassegnato in questa partita elettorale a soccombere.

Di certo, il 6 maggio il tanto agognato ritorno alla normalità, elettorale in questo caso, non sarà però un ritorno alla normalità politica. Quella sarà infatti anche l’ultima tornata in cui potranno votare tutti i cittadini europei residenti nel Regno Unito. Rimandate a causa della pandemia, le local elections avrebbero dovuto svolgersi nel 2020, quando il Regno Unito era ancora formalmente parte dell’Ue; il diritto di voto per gli europei è stato per il momento confermato.  Non è ancora chiaro, tuttavia, dove e come sarà mantenuto. Se Scozia e Galles hanno approvato una legge che prevede il diritto di voto per le amministrative a tutti i residenti a prescindere dalla nazionalità, per il momento il governo di Westminster ha siglato accordi bilaterali con Polonia, Spagna e Portogallo allo scopo di mantenere i reciproci diritti al voto, ma lasciando esclusi francesi o italiani o tedeschi che, dopo la Polonia, costituiscono il grosso della migrazione europea nel Regno Unito.

A parte l’abolizione dei collegi universitari che fino al 1948 prevedevano il doppio voto in base allo status accademico e al territorio di residenza, questa è la prima volta nella storia del paese in cui un diritto al voto viene cancellato e non esteso. Un’altra conseguenza della Brexit. E non è un buon segnale.

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