Più che di geopolitica preferisco parlare di georelazioni. Sì la dimensione territoriale, sì gli interessi particolari, ma anche i quadri ideologici, i principi etico/politici assunti a guida di una linea strategica. Sì la necessità imposta dalla grammatica di un territorio, ma anche la libertà della volontà del leader, in una dialettica eterna che riconduce dritto dritto al problema platonico della conciliazione di universale e particolare. Ed è proprio questa libertà strategica che rende difficilmente prevedibili le mosse di Vladimir Putin, dopo che praticamente nessun analista aveva pensato che avrebbe prima invaso il territorio ucraino, per poi spingersi addirittura fino a Kiev. Ma si ragionava nell’ordine di ieri, evidentemente in conflitto con l’immagine che Putin ha della Russia, dei suoi confini e del suo lebensraum.

A questo punto possiamo pensare che la marcia dei carri russi sia una sorta di avanzare psicotico insofferente di ogni limite, oppure possiamo abbozzare qualche ipotesi per capire quale sia il fine di una simile mobilitazione di truppe. Quale il vero obiettivo nella testa di questo ambiguo ex agente del KGB, che, però, non aveva, finora, dato segni di particolare irrazionalità?

Tre ipotesi

Prima ipotesi: Putin arriva a Kiev e si prende l'Ucraina per restarci. Difficilmente sostenibile: troppo costosa, starebbe impantanato in una guerriglia eterna. Costerebbe soldi e vite umane. Rischierebbe di tramutarsi in una Cecenia al cubo.

Situazione difficile per un paese in crisi economica permanente come la Russia, aggravata dalle sanzioni durissime che gli pioverebbero addosso. L’ormai storico diverbio con il capo dei servizi di intelligence Sergej Naryškin, mantenuto dopo la registrazione, pare indicare crepe interne.

Seconda ipotesi: i russi si prendono Kiev, fanno fuori il presidente Zelenski, un ex-comico che deve vedersela con Putin e Lavrov, si annettono le province russofone e lasciano nell'Ucraina «denazifficata» un sodale. Putin parlerà di una finlandizzazione dell’Ucraina, ma di fatto sarebbe una bielorussizzazione. Difficile, ma possibile: subirebbe comunque un isolamento internazionale enorme, con sanzioni durature durissime e annesse zone di guerriglia costante. Ma, vista la situazione, forse il mondo tirerebbe persino un sospiro di sollievo per lo scampato scontro con la Nato e non infierirebbe con colpi di grazia economici.

Terza ipotesi: russi e cinesi hanno deciso di creare un fronte duraturo anti-occidentale. Propria moneta di scambio, circuiti finanziari, scambi commerciali ed energetici. Sarebbe l'ipotesi peggiore: nuova guerra fredda. Mondo diviso in due e ognuno con i missili puntati sulla testa dell’altro.

Per ora la Cina sembra restare ancorata al principio dell’inviolabilità dei confini. Ma chi si fida di Xi?  Se Putin è criptico, con lui siamo a livelli da sfinge. Forse Russia e Cina hanno davvero visto le lacerazioni interne di Usa ed Europa come una crisi di civiltà. Impressione rafforzata dal tragicomico assalto al Campidoglio del gennaio 2021 e dall’indecorosa fuga da Kabul dell’estate scorsa.

Forse, tutto ciò ha fatto pensare loro che fosse il momento propizio per rivedere i confini mondiali e la presa dell’Ucraina è solo preludio a quella delle Repubbliche baltiche e, soprattutto, di Taiwan, punto finale delle ambizioni globali cinesi. In tal caso, la guerra fredda sarebbe persino consolatoria.

L’Europa

Nessuno può sapere dove ha intenzione di fermarsi Putin, né quanta opposizione incontri in chi gli sta attorno. Certo, però, possiamo sapere cosa vogliamo noi. La cosiddetta stagione populista è in crisi dalle elezioni europee del 2018 e con essa le strizzate d’occhio a Russia e Cina in nome di becere propagande che volevano importare l’immagine dell’uomo forte o sostenere antiamericanismi da terzomondismo d’accatto.

La ricreazione è finita, se qualcuno si sente meglio a Mosca che in molte capitali europee, si accomodi. Monito che vale il doppio per quegli Stati che hanno fondato l’ossimoro della democrazia illiberale, tessendo le lodi della democratura russa, persino trasformando il filosofo Alexander Dugin in star dei think tanks del conservatorismo europeo. Niente doppi giochi, niente contratti su gas e nucleare in sfregio a politiche europee comuni.

A dirla tutta, la politica energetica dovrebbe passare direttamente a Bruxelles per far pesare il peso dell’acquirente unico. Chi ritiene, legittimamente, che la democrazia liberale appartenga al passato, rivendicando il passaggio ad altri sistemi stia fuori. Nudo, esposto all’abbraccio del tanto ammirato amico russo.

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