Comunque la si pensi sulla storia politica di Mario Draghi, il suo discorso recente al parlamento europeo comunica alla perfezione un sentimento politico diffuso. Così diffuso che converrà non sottovalutarlo per affidarci solo alla lucidità delle analisi. È l’evidenza delle cose: tutto sta precipitando e di un ordine consolidato fatto di regole condivise, di formalismi democratici, di equilibri anche informali rimane ogni giorno sempre di meno, demolito dalle spallate di Donald Trump e dall’irresponsabile cecità della vecchia Europa di fronte ai nuovi fascismi.

Come Draghi, buona parte delle persone che hanno affidato alla politica le loro speranze di emancipazione e che credono ancora nella necessità di una sinistra sono ormai in preda al sentimento dell’angoscia politica. «Non so cosa, ma fate qualcosa»: non è ciò che imploriamo tutti rendendoci conto che le sottili analisi politiche non prevedono alcun miglioramento all’orizzonte, ma solo un futuro volto al peggio?

Quel che vorrei suggerire è che questo sentimento politico non è nuovo e che la storia insegna che ci sono tanti modi per farci i conti, alcuni molto pericolosi.

Franz Neumann sosteneva ormai tanto tempo fa che l’angoscia è il problema politico per eccellenza, perché ha a che fare col rapporto tra potere e libertà. Nulla più dell’immagine di Draghi incarna alla perfezione la perdita di potere che amplifica la nostra angoscia. L’impotenza come sentimento che domina anche una delle maschere più eloquenti del potere recente. Se persino Draghi è impotente, quanto possiamo esserlo noi che svolgiamo una funzione periferica e che il potere lo possiamo tutt’al più osservare?

Ma è proprio ciò che proviamo di fronte a ciò che sta accadendo: il fatto che non ci siano più a disposizione strumenti di potere in grado di modificare le cose in meglio. Questo sentimento è realissimo. Siamo dentro un tornante della storia e sappiamo che quel che ci attende dall’altra parte può essere tutto eccetto che il mondo per come lo abbiamo immaginato negli ultimi ottant’anni. E non sappiamo letteralmente cosa possiamo fare. È quel che Neumann avrebbe definito “angoscia reale”. Ci sono due modi di trattarla che vanno assolutamente evitati.

La negazione

Il primo è negarla, rimuovendo la complessità della crisi in cui ci siamo cacciati. Pensare che di fronte alla follia di Trump e alla debolezza strutturale e decennale dell’Europa si possa uscirne con la stessa retorica ottimista con cui Simone Cristicchi ci fa credere che la sofferenza familiare sia tutta rose e fiori.

Per far solo un esempio – ma tanti se ne potrebbero fare – ho avuto quest’impressione ascoltando in questi giorni le parole di Paolo Gentiloni. La disinvoltura con cui coloro che ci hanno portato sull’orlo del baratro insistono col dirci che la situazione è grave ma non seria e che saranno ancora la loro intelligenza politica e le loro strategie consolidate a salvarci somiglia molto a questo genere di semplificazione che bisognerebbe evitare (da questo punto di vista bisogna concedere a Draghi almeno l’onore delle armi: ha capito benissimo che tutti i sedicenti potenti degli ultimi decenni non hanno più alcun potere da esercitare, anche se fingono di non accorgersene).

Una decisione qualsiasi

Ma c’è un secondo modo di elaborare l’angoscia politica che mi pare assai pericoloso. È quello che Neumann intravedeva nel rischio di trasformare l’angoscia reale in angoscia nevrotica. Cioè di non reggere il peso dell’impotenza e affidarsi a qualunque decisione, basta che una decisione ci sia. Fare qualcosa, anche se non sappiamo cosa. La storia ci ha insegnato che quest’ossessione per un potere potente perché capace di prendere una decisione qualsiasi è ciò che trasforma l’angoscia politica nel desiderio di un capo.

Invece il compito della sinistra non è quello di rispondere all’angoscia con la logica del potere, ma con quella della libertà. Non abbiamo bisogno di qualcuno che decida per tutti, ma di costruire immediatamente spazi in cui ci sentiamo liberi di decidere insieme. L’Europa – e non solo – ha bisogno di più democrazia, non di più potenza. Una difesa comune senza una profonda revisione delle procedure istituzionali in senso democratico servirebbe solo ad accentuare la nostra angoscia nevrotica.

Bisognerebbe spiegarlo anche a Giuseppe Conte, che si fa prendere dall’angoscia nevrotica e non si accontenta di esprimere sollievo per la fine di una guerra, ma santifica Trump, dimenticando ciò che i veri pacifisti sanno molto bene: che gli autocrati possono anche far smettere una guerra, ma non sanno fare la pace. Anche Conte si illude che per vincere l’angoscia dentro cui siamo finiti sia necessaria più potenza, non più libertà. E festeggia una guerra finita senza accorgersi che chi ci guida è interessato solo a prepararne altre.

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