Le polemiche per la composizione del nuovo governo, sbilanciata a favore della parte maschile, non accennano ad attenuarsi. Ci si aspettava che l’esordio di quest’esecutivo fosse l’occasione per segnare un mutamento di prospettiva circa il ruolo delle donne in sedi decisionali.

La diversità ai vertici

Con l’arrivo di Mario Draghi si auspicava che potesse finalmente essere conseguita una maggiore presenza femminile nei ruoli decisionali del governo. E non in base meccanismi automatici come quello delle quote di genere, ma per lo spontaneo e naturale riconoscimento di meriti e competenze trasversalmente diffusi.

La promozione della diversità appartiene ormai al patrimonio culturale di coloro i quali hanno compreso che essa risponde a istanze non solo di equità e uguaglianza, ma anche di efficienza. Infatti, da un lato, l’apporto di esperienze diverse al processo decisionale giova all’adozione di scelte quanto più adeguate e ponderate, perché frutto di esperienze e prospettive differenti.

Dall’altro lato, una rappresentanza effettiva significa che nelle sedi deliberative c’è chi può dare rilievo a istanze e interessi del gruppo rappresentato.

A questi fini, la valorizzazione delle diversità di genere può contribuire a rimuovere in modo sostanziale – e non quale mero effetto formale di un automatismo di quote percentuali – gli ostacoli culturali che si frappongono al riconoscimento di una parità effettiva. Questa è la “ratio” sottesa alle politiche di diversity e, quindi, anche all’esigenza di una maggiore presenza di donne in posti di vertice.

Insomma, la diversità è valore aggiunto, e si auspicava che la sua promozione avvenisse anche nella selezione dei ministri, per attestare un cambio di passo.

Purtroppo, il cambio di passo, nel primo passo del nuovo presidente del Consiglio, non c’è stato. Come ha scritto su queste pagine Giorgia Serughetti, «nemmeno l’uomo della provvidenza ha invertito la logica italiana dell’“old boys club”, forse perché già impegnato nell’impresa – effettivamente sovrannaturale – della sintesi politica degli opposti».

Le sfide del nuovo governo 

Non si hanno dubbi circa il fatto che il nuovo esecutivo porrà la massima attenzione a temi che le donne rilevano da tempo come necessari al fine di promuovere una parità effettiva. Innanzitutto quello dell’occupazione, il cui tasso era già lontano dalla media dell’Unione europea ed è ulteriormente crollato (48,6 per cento dopo il primo anno di pandemia (l’obiettivo del 60 per cento di occupazione femminile, fissato dalla Strategia di Lisbona, si assocerebbe “meccanicamente” a una crescita del prodotto interno lordo del 7 per cento, secondo le stime della Banca d’Italia).

Di certo, il governo Draghi avrà ben presenti pure le carenze nella copertura degli asili nido - anch’essa nettamente inferiore all’obiettivo del 33 per cento, relativamente ai bambini di età inferiore ai 3 anni, previsto in sede europea – nonché delle infrastrutture sociali e nel welfare di assistenza. 

Si tratta di elementi che, tra gli altri, concorrono a una maggiore occupazione femminile e, come conseguenza, all’aumento del tasso di natalità - anch’esso in crollo - come dimostrano le evidenze in materia. Non si ha motivo per dubitare che su questi e altri problemi, che gravano soprattutto sul genere femminile, il nuovo Governo interverrà in maniera efficace. Ma sarebbe stata una buona cosa se sin dall’atto della sua formazione avesse dato alle donne un segnale forte.

La norma costituzionale

Molti hanno evidenziato che la responsabilità nella scarsa rappresentanza femminile nel governo non dipende da Draghi, ma da distorsioni all’interno dei partiti - Pd in primis – che precludono alle donne la valorizzazione necessaria per il loro accesso a ruoli di vertice.

Si auspica che la polemica sollevata in questi giorni porti a rivedere le logiche sottese a certe condotte e, in particolare, alla definizione delle leadership all’interno dei partiti.

Tuttavia, al di là dei problemi delle formazioni politiche, serve fare chiarezza sulle responsabilità nella scelta delle persone che siedono ai vertici dei dicasteri.

Non si sa come Draghi abbia selezionato i ministri, se si sia fatto dare indicazioni dai partiti e fra quelle abbia individuato i componenti del nuovo governo. Si dice che qualcuno abbia appreso della designazione solo dopo l’annuncio.

Pare non vi siano state “contrattazioni” tra i leader politici e il presidente del Consiglio incaricato. In buona sostanza, quest’ultimo si è strettamente attenuto al dettato costituzionale. «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri» (art. 92), dice la Costituzione. Ciò significa che Draghi è responsabile della scelta dei ministri al di là delle eventuali indicazioni dei partiti. E se questi ultimi gli avessero fornito solo o prevalentemente nomi di uomini, bene avrebbe fatto il presidente incaricato a farsi indicare anche quelli di donne. Ma non basta.

Anche il presidente della Repubblica sarebbe potuto intervenire, ove avesse ravvisato qualche vulnus nelle scelte, in termini di eguaglianza (art. 3 Cost.)  e di pari opportunità (art. 51 Cost.). Non sarebbe stata la prima volta di un intervento del Quirinale nella definizione dei nomi dei ministri (si ricordi il caso Savona).

C’è chi qualifica come polemica fine a stessa quella relativa alla rappresentanza femminile. Ma se la valutazione di impatto di genere, cioè l’analisi degli effetti di certe scelte sulle donne, deve connotare le decisioni di investimento dei fondi del Next Generation Eu - come fondatamente chiedono molte associazioni femminili, per raggiungere una concreta parità - è bene la si faccia anche con riguardo alla composizione dell’esecutivo appena formatosi. Non è mai troppo presto. Anzi, è già tardi.

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