Ci sono ben due notizie positive dopo questo weekend elettorale. La prima è che Matteo Salvini non è più il leader del centrodestra: la Lega è arrivata quasi ovunque dietro Fratelli d’Italia, il fronte anti-leghista da destra ha azzoppato il sindaco uscente di Verona, al Sud è scomparso il progetto di una Lega nazionale, che ha lasciato spazio a vecchi arnesi come Totò Cuffaro, Marcello Dell’Utri a quella Mafia con i quali entrambi hanno avuto rapporti, alla base delle rispettive condanne definitive.

Invece di studiare una strategia per le amministrative, Salvini ha passato gli ultimi mesi a svolgere una diplomazia parallela insieme a (o per conto di) Mosca e contro quella ufficiale del governo italiano.

Il fatto che l’ambasciata russa dichiari che il leader leghista non è neanche capace di comprarsi da solo i biglietti per Mosca aggiunge nuove sfumature alla celebre categoria politica, russa anch’essa, di Vladimir Lenin, dell’ “utile idiota”.

Anche il disastro referendum, alla fine, porta la firma di Salvini. L’affluenza poco sopra il 20 per cento indica un sostanziale disinteresse. A votare sono andati quasi soltanto avvocati e militanti radicali, oltre a chi passava dal seggio per via dell’election day.

Quindi niente quorum. Ma nei due quesiti più comprensibili, quello sulla incandidabilità dei condannati (legge Severino) e sulla limitazione delle misure cautelari, i Sì hanno prevalso di pochissimo (53 per cento), segno che ai tanti contrari che si sono astenuti vanno sommati anche quasi metà dei votanti.

E così, seconda buona notizia del weekend, forse ci siamo tolti dai piedi per qualche anno anche i “garantisti” all’italiana, quelli che in nome di principi liberali che non hanno neanche letto e di una “giustizia giusta” che è tale solo quando assolve politici corrotti e compromessi con la mafia. 

Le loro battaglie non sono minoritarie per un qualche complotto dei poteri forti manettari: pur denunciando a reti, radio e giornali unificati il proprio bavaglio alle proprie idee, i sostenitori del referendum non sono riusciti a mobilitare neanche i parenti stretti: affluenza più bassa che al referendum 2016 sulle trivelle che, per definizione, appassionava quasi soltanto chi viveva in riva a mari trivellabili.

 I “garantisti” all’italiana, che tanto amano dipingersi come ribelli contro il sistema, sono minoritari perché difendono le ragioni di un potere che reclama impunità. E alla gente, di solito, l’impunità del potere non piace.

Ora che hanno perso la battaglia, forse, si potrà parlare anche di giustizia in termini laici e non corporativi o lobbistici: magari con dati e analisi a motivare le scelte di riforma invece che regolamenti di conti tra correnti e ordini.

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