Proclamato il regno d'Italia nel marzo 1861, il 2 agosto Massimo D'Azeglio scriveva a Carlo Matteucci: «Noi siamo proceduti innanzi dicendo che i governi non consentiti dai popoli erano illegittimi (…) A Napoli noi abbiamo altresì cacciato il Sovrano per istabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti per contenere il regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di là sono necessari. (…) La questione di tener Napoli dipende soprattutto dai Napoletani, salvo che noi volessimo per comodo nostro mutare i principii che abbiamo bandito prima (…). Agli italiani che non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare delle archibugiate...».

Sull'argomento quarant'anni fa ebbe una sua piccola fortuna un libro intitolato Il comando impossibile. Il titolo mi era stato ispirato dalla lettura preziosa delle pagine che un filosofo, o psicologo, austriaco-americano, Peter Watzklawick, aveva dedicato alla Pragmatica della comunicazione umana; vi si illustrava come nevrosi o psicosi potessero derivare dai paradossi delle comunicazioni interpersonali, da comandi impossibili come “ti ordino di disubbidirmi”.

Nel nostro caso, ai meridionali era stato detto “ti ordino di essere libero (come l'intendiamo noi, unico modo possibile)”. Impossibile. Mai dalla caduta dell'impero romano d'occidente la penisola era stata retta dal medesimo comando. Troppe differenze correvano là dove per secoli avevano regnato longobardi e normanni, bizantini e arabi.

Ci vollero lo stato d'assedio e più di centomila uomini armati per combattere la rivolta del brigantaggio. Le migliaia di morti non si contarono. Eppure, nel tempo medio-lungo la scommessa è stata vinta. Vinta anche molto bene. Con qualche dissonanza.

Gli antropologi anglosassoni hanno preso a visitare i paesi del Mezzogiorno con gli stessi attrezzi mentali con cui visitavano il Mato Grosso, Giava o il Sahel; gli economisti hanno discusso di “dualismo”, gli storici di “questione meridionale”, e tutt'ora si studia come “sviluppare il Mezzogiorno”.

Certo, i cultori di Alberto da Giussano in Padania e i “neoborbonici” al Sud fanno carte false (in senso letterale) per documentare le virtù delle libertà comunali e l'abominio colonialista. Si tratta di lievi dissonanze, di irrilevanti punture di spillo che avvengono ovunque. Ma intanto siamo divenuti un popolo. Sarà stato merito delle comuni matrici cristiane, di quelle umanistiche e letterarie, o della condivisa bianchezza, diranno alcuni. Chissà.

Certo è che in altri casi il comando si è rivelato davvero impossibile, e il meccanismo non ha funzionato, come in Afghanistan. Forse la distanza antropologica tra le parti era eccessiva, eccessiva la sicurezza di sé, l'irruenza che ha guidato una penetrazione modernizzante, affrettata e corrotta. Avremo tempo per discuterne.

Fatto sta che mentre gli eventi ci inducono a mettere in discussione la stessa possibilità storica di “esportare la democrazia”, intanto dobbiamo espiantarla. Infatti la democrazia di una modernità invasiva ha significato insediare amministratori, tecnici, insegnanti, impiegati, traduttori, ed ora cerchiamo di portarli via. Non era mai successo, ed è da dubitare che sia possibile.

Ma una volta superata l'emergenza, il problema sarà un altro. Nel tornare in patria, nel ritirarci come un'onda di marea che lascia le barche a secco, insieme agli espiantati dovremo anche portare con noi stato di diritto libertà eguaglianza democrazia e parità di generi?

Per correttezza politica, per rispetto antropologico, dovremo considerarle cose solo nostre, continuando a discettarne in patria, a disquisirne, ma non pretendendo di imporle ad altri? Occorrerà far chiarezza sul tema. E non sarà facile.

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