La carriera politica di Aboubakar Soumahoro probabilmente è già finita, difficile riprendersi dalla quantità di notizie uscite in questi giorni e da una gestione della crisi che ha solo peggiorato la situazione. Soumahoro rimarrà probabilmente tranquillo in parlamento, magari nel gruppo misto, fino alla fine della legislatura e difficilmente sentiremo più parlare di lui.

Ma c’è una questione che trascende il personaggio: la caduta di Soumahoro si è consumata soprattutto sui media dove, va riconosciuto, si era costruita anche la sua ascesa.

Prima La Verità (in estate), poi Repubblica che ha dato conto dell’inchiesta della procura di Latina sulle cooperative di famiglia, poi un po’ tutti gli altri, incluso Domani che ha rivelato alcuni dei dettagli cruciali, come i bonifici diretti verso il Ruanda e le connessioni tra le cooperative della moglie e della suocera e l’attività sindacale di Soumahoro.

Benissimo, i giornali hanno fatto – per una volta – il loro dovere. Ma questo approccio, capace di incenerire in una settimana un decennio di immagine pubblica costruita centimetro dopo centimetro, vale solo per Soumahoro? Che, certo, sembra essere molto diverso dall’eroe dei braccianti che raccontava di essere, ma è pur sempre un singolo individuo, senza potere, senza neppure un portavoce o un’agenzia che gli gestisca la comunicazione di crisi.

Un giornalismo responsabile dovrebbe applicare lo “standard Soumahoro” anche al resto della classe dirigente, o almeno al resto del parlamento e del governo. Invece, l’accanimento contro il deputato eletto con Verdi e Sinistra italiana sembra motivarsi più con la consapevolezza che, distruggendo Soumahoro, si distruggono le cause che rappresenta. Dov’erano questi mastini dei media quando si parlava dei conflitti di interesse del ministro della Difesa Guido Crosetto?

E i conflitti di Daniela Santanché e i suoi infortuni da imprenditrice sono forse meno gravi di quelli di Soumahoro? Andate a chiedere ai dipendenti e a i soci di Visibilia, la società che era a capo del fragile impero Santanché, se si sentono così diversi dai dipendenti della cooperativa Karibu di Latina.

Molte delle firme che si sono applicate a Soumahoro con inattaccabile rigore erano invece assai distratte quando, in perfetta solitudine, Domani raccontava lo scempio commesso nella vicenda Autostrade, con miliardi pagati ai Benetton soltanto per far poi comandare due fondi di investimento non meno rapaci.

Ma non se ne poteva parlare, perché denunciare l’operazione di Cassa depositi e prestiti significa mettere in discussione l’opportunità delle scelte del presidente del Consiglio di allora, Mario Draghi.

L’accanimento contro Soumahoro ricorda quello, all’inizio della scorsa legislatura, contro l’ex presidente della Camera Roberto Fico e la decisiva questione della sua collaboratrice domestica. Importante punto di principio, per carità.

Ma è un sistema iniquo quello in cui si contestano i vizi privati ai predicatori di virtù pubbliche mentre si applaudono i tanti che, in perfetta coerenza, predicano un individualismo e uno spregio delle regole che rigorosamente praticano anche in prima persona.

Della parabola di Soumahoro, dunque, si potrebbe salvare soltanto questo: l’aver fissato uno standard. Ogni politico dovrebbe d’ora in poi sapere che, se colto in fallo, si deve aspettare il “trattamento Soumahoro”.

Se i media italiani saranno altrettanto implacabili in tutti i prossimi scandali, allora la vicenda dell’ex bracciante non sarà stata inutile. Possiamo sperarlo, ma il dubbio è più che legittimo.

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