Leggo delle vicende giudiziarie che stanno coinvolgendo numerosi appartenenti all’arma dei Carabinieri. Non voglio essere ipocrita o tacciata di appartenere al cosiddetto partito dell’antipolizia. So perfettamente che qualsiasi cosa io possa dire, essa verrà strumentalizzata in un senso o nell’altro. Pochi giorni fa ho raccontato a Rebibbia gli undici anni della mia vita passati nelle aule dei tribunali. I miei genitori vi ci sono invecchiati ed ammalati. Tutto questo solo per cercare di ottenere ciò che ci era dovuto: verità e giustizia per l’uccisione di Stefano Cucchi. Mio fratello.

Siamo cittadini italiani, siamo europei, eppure, abbiamo dovuto vivere tutto questo tempo con sopra di noi un’ombra nera che ci costringeva continuamente a lottare, combattere per non essere travolti dalle menzogne, dai depistaggi, dalle minacce e dagli insulti. Siamo stati costretti a sacrificare tutto per questo. Affetti famigliari, attività lavorative, interessi economici e salute. Un’ombra nera nettamente palpabile sia fuori che dentro quelle aule.

L’ arma dei carabinieri, ora lo posso dire, questo è stata per noi. È doloroso ammetterlo ma ipocrita, appunto, negarlo. Prima che venisse ucciso mio fratello, la caserma dei carabinieri era la mia casa. Provavo sempre e comunque un senso di gratitudine e sicurezza quando mi imbattevo nelle loro pattuglie o facevo ingresso nelle loro stazioni per chiedere aiuto. Giuro che mantengo tuttora questi sentimenti. Grazie a Dio non li ho persi. Non posso però essere tanto arrabbiata. No. Non posso.

Non posso dimenticare che alcuni di loro hanno pestato a morte Stefano facendolo morire di dolore. Non posso dimenticare che alcuni di loro si sono adoperati per garantirne l’ impunità. Magari facendo processare altri innocenti al posto loro. Non posso dimenticare i colonnelli e generali che, nel corso degli anni, hanno continuato ad ostacolare il corso della giustizia ed il lavoro dei magistrati. Provo un profondo senso di smarrimento di fronte a tutto questo. Poi, per strada, incontro i carabinieri, quelli veri. Quelli come Casamassima e Rosati. Come Schirone e Mollica. Come Colicchio. Come il colonnello D’Aloya. Mi rassicurano. Mi scaldano il cuore come il maresciallo che mi ha baciato la mano il giorno sentenza.

Leggo dell’imminenza della nomina di un nuovo comandante generale dell’arma. Non spetta certo a me fare considerazioni in merito.

Mi aspetto, però due cose. Che la politica non si intrometta e che, il nuovo comandante generale dell’arma scriva una bella lettera di scuse a tutti i 100mila suoi sottoposti che fanno servizio per le strade del nostro paese promettendo di restituire alla loro divisa la dignità ed il rispetto che meritano incondizionatamente. Di farlo nell’unico modo giusto: lo spirito di un corpo innamorato della legge e della sua uguaglianza per tutti i cittadini.

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