Ecco perché dopo il vertice europeo il bicchiere è mezzo pieno

All’indomani del lungo e convulso vertice di Bruxelles, il bicchiere europeo appare mezzo pieno. Ci sono stati compromessi, concessioni, rinvii; ma il risultato finale va considerato abbastanza positivo, date le circostanze, e non solo perché l’alternativa (nessun accordo) sarebbe stata disastrosa per l’immagine e la reputazione dell’Ue. Primo, l’Ucraina riceverà il denaro di cui ha disperatamente bisogno per sopravvivere nei prossimi mesi. I 90 miliardi di euro che l’Unione le “presterà” non copriranno forse l’intero fabbisogno dei prossimi due anni, ma appaiono sufficienti a guadagnare il tempo necessario per districare la complessa matassa della guerra e consolidare la sua posizione negoziale nei confronti sia di Putin che di Trump. Per parte loro, gli europei hanno messo – come dicono gli inglesi – i (loro) soldi dove hanno la bocca: certo, poter punire Mosca e sostenere l’Ucraina senza impegnare risorse proprie era una prospettiva molto attraente, ma forse non erano stati calcolati a dovere tutti i rischi dell’operazione, e non solo quelli derivanti dalle prevedibili minacce russe ma anche quelli segnalati dalle agenzie di rating. Non è un caso che nelle trattative il Belgio non si sia trovato da solo a sollevare obiezioni tecniche alle proposte della Commissione sull’uso degli asset. Il flop sugli asset russi: i leader ripiegano su debito comune ed “eccezioni ungheresi” Ed è solo di fronte alla prospettiva di un fallimento che è tornato sul tavolo il piano B – un prestito diretto garantito dalle riserve non utilizzate dell’attuale bilancio comunitario – nonostante le resistenze dei paesi cosiddetti ‘frugali’: alla fine, dunque, il rischio è stato condiviso, anche se al prezzo (per avere l’unanimità richiesta) di esonerarne Ungheria, Slovacchia e Cechia. Il prestito, senza interessi, dovrà essere rimborsato da Kyiv solo se Mosca pagherà riparazioni di guerra: se non lo farà, allora potrebbe riemergere, fra le altre, l’ipotesi di usare gli asset russi (una concessione ai frugali e in particolare a Merz). Se l’opt-out dei tre paesi centro-europei ha evidenziato le difficoltà che restano sul cammino della sua adesione all’Ue, l’Ucraina può almeno rallegrarsi del fatto che, nella notte di mercoledì, il Senato americano ha varato – con voto sorprendentemente bipartisan (77 a favore e 20 contrari) - il nuovo bilancio del Pentagono, che include tuttora 800 milioni di euro di aiuti militari e vincola l’amministrazione a continuare il suo sostegno. Inoltre, la firma dell’accordo commerciale coi paesi del Mercosur è stata sì rinviata a gennaio, ma non è stata davvero messa in discussione. Certo, Ursula von der Leyen ha dovuto rinunciare alla photo opportunity con Lula prevista per oggi in Brasile, ma la concessione – accordata innanzitutto alla Francia, ma anche alla Polonia e, all’ultimo, pure all’Italia – pare più una tattica per addolcire una pillola che verrà comunque inghiottita che non uno scacco strategico; e comunque l’imposizione di un voto a maggioranza qualificata (più incerta dopo la posizione assunta da Roma) avrebbe potuto poi rendere più difficili le ratifiche nazionali. Il bicchiere del summit è mezzo pieno anche per Roma. L’Italia ha ottenuto una vittoria di principio - quasi ideologica - sul prestito comune garantito dal bilancio comunitario, attraverso il quale, tuttavia, verserà comunque molti più aiuti a Kyiv di quanto non abbia fatto finora a livello bilaterale: come ha osservato qualcuno a fine vertice, a sostenere finanziariamente l’Ucraina ora non saranno più solo una decina di paesi, ma 24. E pure sull’accordo col Mercosur, Meloni ha sì strappato il rinvio che chiedeva - anche per tenere unita la coalizione di governo - ma non è detto che si sia fatta più amici nei negoziati sul prossimo bilancio comunitario (comprese le risorse per l’agricoltura). Soprattutto, in fase di crescente protezionismo a livello globale, non è ben chiaro che interesse “nazionale” Roma abbia nel complicare l’integrazione economica con paesi come l’Argentina o il Brasile, dove tra l’altro risiede una vasta diaspora italiana.