Dopo l’ultimo anno e mezzo abbiamo una limitata capacità di sopportare altre cattive notizie, ma abbiamo anche imparato che certi problemi è meglio affrontarli prima che sia troppo tardi. Per ridurre i danni. E allora affrontiamo questa cattiva notizia: sta tornando l’inflazione, una tassa occulta che in Italia non ricordiamo neanche più, visto che da un ventennio l’euro ha garantito una sostanziale stabilità dei prezzi.

Ieri però Wall Street ha avuto sussulti di nervosismo: una serie di indicatori fanno pensare che l’inflazione negli Stati Uniti sia ripartita, le aspettative per il 2021 sono di almeno il 3,4 per cento (e stanno crescendo).

Se l’inflazione sale, presto o tardi la banca centrale americana, la Federal Reserve, dovrà ridurre il suo sostegno all’economia. E che i prezzi siano destinati a correre è convinzione di molti economisti: gli stimoli fiscali dell’amministrazione Biden stanno spingendo l’economia americana sopra il suo potenziale, le persone avranno molti più soldi in tasca in un momento nel quale le imprese del dopo-Covid non saranno del tutto in grado di soddisfare la domanda. La Federal Reserve ha già assicurato che tollererà un po’ di inflazione per evitare di soffocare la ripresa. Ma non è chiaro quanta.

In Europa la situazione non è molto diversa. La Bce deve mantenere la stabilità dei prezzi, cioè un’inflazione intorno al 2 per cento annuo che è sempre sembrata un miraggio nell’ultimo decennio: dopo la crisi dell’euro il problema è stata la deflazione, che deprime investimenti e crescita e aumenta il peso del debito. Ma già oggi in Germania, paese che ha un peso nelle scelte di politica monetaria, i prezzi stanno aumentando a un tasso annuo superiore al 2 per cento e l’esponente tedesca nel board della Bce, Isabel Schnabel, ha detto che la Bce non ridurrà il sostegno monetario agli stati anche se l’inflazione tedesca dovesse superare il 3 per cento.

Questo contesta genera incertezza, perché la situazione è senza precedenti: mai le banche centrali avevano sostenuto come ora gli stati nazionali (comprando titoli di debito che tengono bassi gli interessi) e mai gli stati avevano sostenuto l’economia con una simile spesa pubblica, finanziata a debito. Sia la Fed che la Bce hanno sempre rassicurato: quando sarà il momento, riusciranno a ridurre le misure straordinarie senza far precipitare le rispettive economie in una recessione che in passato è stata la cura drastica per fermare la corsa dei prezzi. Ma sono promesse difficili da rispettare, soprattutto perché le banche centrali si troveranno strette tra la pressione dei mercati spaventati dall’inflazione e quella della politica terrorizzata dalle tensioni sociali che deriverebbero da una ripresa strozzata dopo la recessione Covid.

Qualche nostalgico degli anni Ottanta e dei rendimenti a due cifre dei Bot magari starà esultando. Ma per l’Italia in questo scenario ci sono solo rischi: una frenata della Bce, magari già nel 2021 o a inizio 2022, potrebbe rendere insostenibile il nostro enorme debito pubblico, arrivato con il Covid al 160 per cento del Pil.

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