Si presenta solo, e già è un’immagine che dice tutto del Pd, più che del segretario sconfitto Enrico Letta. «È un giorno triste, ci aspettano giorni duri», dice, il prossimo Pd farà «un’opposizione intransigente» ma «gli italiani e le italiane hanno scelto, hanno fatto una scelta chiara e netta, hanno scelto la destra».

Letta rimanda al mittente le accuse di non aver voluto fare le alleanze: «Se Meloni è a Palazzo Chigi questo e' figlio della prima scelta, quella di Conte di far cadere Draghi». Ma sa bene che l’accusa gli viene anche da dentro il partito.  Poi ne ha per Carlo Calenda, l’altro alleato mancato: «Sono rimasto amareggiato dai risultati del collegio senatoriale di Emma Bonino per il fuoco amico di Calenda che ha aiutato l’elezione della candidata di destra».

Solo un traghettatore 

Ma si assume, in solitudine, la responsabilità della sconfitta: «Sono tornato a marzo dello scorso anno con l'obiettivo di tenere unito il Pd dalla prospettiva di disgregazione. L'altro obiettivo era preparare una legislatura democratica e progressista. Il primo obiettivo è raggiunto, il Pd è in campo, si rivela una comunità viva e forte». Ma si assume la responsabilità della sconfitta: «Evidentemente non ho raggiunto il secondo obiettivo, perché questa legislatura sarà la legislatura più a destra della storia d'Italia». Non si dimette, ma annuncia che non si candiderà: «In spirito di servizio assicurerò la guida del partito fino al congresso». Un congresso anticipato rispetto a marzo, la scadenza naturale. Letta propone «una profonda riflessione su cos’è e cosa deve essere un nuovo Pd». 

La conferenza stampa inizia con un’ora di ritardo. Enrico Letta resta a lungo barricato nel suo ufficio con il coordinatore del partito Marco Meloni. Cominciano a fioccare le richieste di dimissioni, ma vengono da fuori dal Pd. Nel gruppo dirigente le bocche restano cucite finché non parla il segretario, il gruppo dirigente non è affatto così unito come Letta racconta ai cronisti. L’ala sinistra frena sul congresso: Orlando e compagnia non hanno ancora scelto un candidato. L’ala riformista, guidata dal silenziosissimo Lorenzo Guerini, è naturalmente l’infrastruttura che potrebbe sostenere il presidente della Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Anche se anche in quella regione rossa il risultato non induce a passi baldanzosi e a cuor leggero. 

Quando Letta parla di un «Pd nuovo» in molti pensano a Elly Schlein, la giovane donna, vice di Bonaccini ma proveniente dai movimenti (in realtà nasce nel Pd e nella corrente di Pippo Civati), che il segretario ha voluto al suo fianco in tutta la campagna elettorale. Ma sarebbe un papa straniero, anzi una pontefice, un’incognita totale per il Pd e per il suo gruppo dirigente che, in pieno terremoto, sembra più propenso a serrare i ranghi. 

Il fantasma di Renzi 

L’incubo si è materializzato alle tre della notte più lunga del Pd, più lunga anche della notte della sconfitta del 2018. Gli exit poll e poi le proiezioni abbassano di decimale in decimale la media nazionale del Partito democratico fino alla soglia del 19, fino ad arretrare ancora indietro, fino a fermarsi sull 18,98 per cento. Ironia della sorte, anzi sarcasmo feroce: a un paio di decimali da quel 18,7 per cento che il segretario aveva definito  «il peggior risultato della sinistra del dopoguerra». Ci sarà tempo per guardare i numeri nel dettaglio, ma il «guinnes negativo» rischia di essere quello di stavolta.

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