Il secondo turno delle elezioni regionali sta già creando una forte discussione tra i commentatori francesi, concentrati soprattutto su tre aspetti del risultato emerso dalla consultazione: l’astensione massiccia, giunta al 65,7 per cento; il netto successo del partito post-gollista dei Républicains, con circa il 39 per cento dei (non molti) voti espressi; la riconferma pressoché totale al loro posto dei presidenti di regione uscenti, o dei successori da loro pubblicamente designati.

Tre punti di per sé interessanti, che presentano analogie non casuali con processi in atto da tempo in altri paesi, a partire dall’Italia. Ma lo scrutinio di domenica richiama altre questioni la cui portata travalica i confini della Francia e si presta a considerazioni non estemporanee sulle tendenze che contraddistinguono l’attuale fase di sviluppo – e di crisi – delle democrazie europee.

L’astensione

Il dato che più salta agli occhi, quello del rifiuto delle urne da parte degli elettori d’Oltralpe, è di fatto il più controverso sul piano dell’interpretazione.

C’è chi, richiamando la lunga e tormentata vicenda dei gilet gialli, e soprattutto la maggioritaria adesione dell’opinione pubblica a quella stagione di rivolte di “gente qualunque” che accomunava nel disprezzo l’intera classe politica e reclamava di essere ascoltata e messa in condizione di dire la propria sulle decisioni che le ricadevano sulle spalle, a partire dai provvedimenti sul fisco e sulle pensioni, vi vede la riprova di un distacco fra governati e governanti non più sanabile.

E in alcuni casi si spinge a pensare che alle sue radici vi sia una tale disaffezione verso le procedure democratiche da creare una potenziale massa di manovra per involuzioni autoritarie, facendo riferimento anche a due lettere-manifesto firmate da centinaia di ufficiali, della riserva e in attività, nelle quali si denunciava la degradazione del clima sociale nel paese, con particolare enfasi sulla crescita della violenza nelle periferie urbane e sulle tensioni fra gruppi etnici.

Meno drammaticamente, altri rispolverano la storia elettorale della Quinta Repubblica per dimostrare che forti cadute nell’afflusso alla urne si sono già verificate più volte e sono state, almeno in parte, riassorbite. In quest’ottica, l’astensione è imputata alla sempre più forte difficoltà di distinguere in modo netto i programmi e i riferimenti ai valori delle formazioni che sollecitano il voto, e dunque all’indifferenza di molti verso un risultato che, chiunque sia il vincitore della competizione, non prometterebbe alcun sostanziale cambiamento dello status quo.

(AP)

Il rifiuto del voto

Entrambe le letture appaiono plausibili e colgono un fenomeno ormai diffuso alla gran parte degli stati europei, che sarebbe però rischioso sottovalutare. Perché, per quanto fisiologico stia diventando, il rifiuto del voto indebolisce – e non poco – l’implicito patto di fiducia fra cittadini ed eletti che è alla base del principio rappresentativo, erodendo la legittimità delle istituzioni che dalla sua applicazione scaturiscono.

Un dato che l’ascesa dei partiti populisti di vario segno aveva messo in evidenza, e che non a caso si acuisce proprio quando questa offerta di alternative si è sbiadita e i suoi interpreti – Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon in Francia, ma anche Matteo Salvini e Beppe Grillo in Italia e parecchi dei loro simili in giro per il Vecchio continente – abbozzano un’inversione di rotta e mettono la sordina ai propositi più radicali per cercare di trovare sbocchi praticabili alle ambizioni di entrare, o rimanere, al governo nazionale o locale.

Se anche questa valvola di sfogo dovesse esaurirsi, il grado di disaffezione verso la democrazia, oggi misurabile in termini di diffidenza e indifferenza, potrebbe tradursi, in momenti di crisi, in contestazioni aperte e virulente del “sistema” nel suo insieme.

Dopo l’ubriacatura

Il successo dei Républicains, analogo a quello che arride oggi al Partido Popular in Spagna, alla Cdu in Germania e, stando ai sondaggi, al centrodestra italiano, oltre che ad altre formazioni conservatrici dell’Europa dell’Est e del Nord, viene invece generalmente ascritto ad un esaurimento di quel ciclo di protesta contro l’ingessatura dei sistemi politici all’interno dello schema bipolare destra/sinistra che aveva fatto da traino ai citati successi populisti.

Passata l’ubriacatura demagogica che aveva fatto parlare di una vendetta di “quelli che stanno in basso” contro l’élite e rilanciato i desideri, o sogni, di democrazia diretta – si sostiene da più parti –, gli elettori starebbero ponendo fine all’era dei tribuni e rifluendo su candidati (e apparati) rodati e affidabili, nelle cui mani porre il controllo di meccanismi decisionali troppo complicati per essere guidati da chi ha più confidenza con le emozioni e i bagni di folla che con le asettiche stanze dei centri di potere amministrativo.

La riconferma dei presidenti di regione uscenti, parte dei quali espressione del Partito socialista, andrebbe inquadrata in quest’ottica, e c’è chi aggiunge che in questo presunto ritorno alla ragione l’effetto-Covid avrebbe giocato un ruolo tutt’altro che indifferente, rivalutando le figure dei tecnici e degli esperti.

Un’epoca che non è finita

Anche in questo caso, in un’interpretazione di questo genere c’è senz’altro una parte di verità. Ma anche, viene da pensare, molto wishful thinking, desiderio di leggere l’andamento delle cose così come lo si desidererebbe.

Di sicuro, le cifre del 27 giugno 2021 ridimensionano la credibilità di molte analisi del maggio 2017, quando l’accesso al secondo turno del duello presidenziale di due outsiders, Emmanuel Macron e Marine Le Pen, e il 20 per cento sfiorato da un terzo candidato antisistema, Jean-Luc Mélenchon, uniti allo sprofondamento dei socialisti a una percentuale risibile e al ridimensionamento degli eredi di Sarkozy, avevano fatto parlare della fine di un’epoca.

I tradizionali partiti di governo, si era sentenziato, erano arrivati al capolinea e il loro condominio, dopo quasi sessant’anni dalla riforma istituzionale voluta da de Gaulle, era ormai storia del passato. Il futuro sarebbe stato nelle mani di chi, in un modo o nell’altro, scavalcava le vecchie linee di divisione e ne proponeva di nuove, sia che fossero ispirate al populismo, sia che lo combattessero in nome dell’efficientismo tecnocratico “dal volto umano”, di cui La République en marche, inventata dal nulla in poche settimane da Macron, si pretendeva alfiere.

Cos’è cambiato

Di quello scenario, il voto più recente offre una versione pressoché capovolta. Ma considerarla una svolta irrevocabile significherebbe ripetere l’errore di quattro anni fa. Non solo perché il campione di riferimento è una popolazione elettorale davvero striminzita (particolare non trascurabile), ma anche perché questa apparente resurrezione dei vecchi dinosauri, i partiti di apparato fondati sul potere diffuso dei notabili, da sempre spina dorsale dell’amministrazione francese, non è dovuta ad una loro capacità di adeguarsi alla nuova situazione del paese, ma al fallimento – se temporaneo o definitivo, si vedrà – del modello proposto, in forme diverse ma convergenti, dai loro sfidanti.

Aver puntato sulla disgregazione delle usuali forme organizzative affidandosi quasi esclusivamente alla capacità di coinvolgimento e proselitismo dei social media, come ha fatto Le Pen, oggi alla guida di un partito quasi privo di presenza territoriale, o fare l’elogio di un partito-movimento «allo stato gassoso» e fondato sul frammentario e sporadico inserimento in episodi più o meno effimeri di conflittualità sociale, come è stato per Mélenchon, o ancora puntare tutto sull’immedesimazione nel leader, come ha voluto fare Macron, ha prodotto solo disastri. Più contenuti nel caso del Rassemblement national, forte comunque di un 20 per cento di consensi, drastici per gli altri due, finiti ai confini del 7 per cento.

Il presidente Emmanuel Macron con Xavier Bertrand (Ludovic Marin, Pool Photo via AP)

Tutto può succedere

Ancora una volta, però, se Atene piange, Sparta non ride. I Républicains, già all’indomani del mezzo trionfo, hanno dato prova della persistente spaccatura delle loro anime, due delle quali del resto fanno capo a personaggi – Xavier Bertrand e Valérie Pécresse – che, per motivi diversi, hanno formalmente abbandonato il partito da tempo e figuravano nelle liste come indipendenti.

I socialisti, pur capaci di confermare il radicamento notabiliare nei territori da sempre gestiti, non sono riusciti a raccogliere sotto la loro guida, come speravano, un’alleanza delle sparse sinistre, con i comunisti inchiodati sul 2,5 per cento e i Verdi, riottosi alle subordinazioni, non più sulla cresta dell’onda. La rivincita del bipolarismo, malgrado i molti auspici mediatici, pare quindi lungi dal potersi dire certa. E di qui alla presidenziale, malgrado i soli dieci mesi di distanza, molto, se non tutto, potrebbe essere rimesso in discussione.

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