Nicola Zingaretti è segretario del Pd da quasi due anni. E come sempre accade a sinistra, è diventato subito un novello Benjamin Malausséne. Cioè perfetto il capro espiatorio (archetipo protagonista dei libri di Daniel Pennac) di ogni errore del partito, per tutte le defaillance dell’area politica che rappresenta un pezzo (minoritario) del Paese. L’ultima crisi di governo ha rinverdito i fasti di una vecchia coazione a ripetere, con opinionisti e antipatizzanti che vogliono Zingaretti leader «in declino», uomo senza carisma e «incapace a decidere». Un balbuziente in bilico tra il definitivo “Conte o morte” e il supino via libera al governo con Matteo Salvini.

Alcune critiche sono giustificate, s’intende. La vicenda della mancata rappresentanza femminile nel governo Draghi è sconfortante, e non è peregrina la speranza di coloro che sognano alla guida del Pd un capo con un ascendente popolare maggiore. Eppure in molti dimenticano le condizioni drammatiche nelle quali Zingaretti è stato chiamato ad operare, e quali miseri attrezzi ha avuto a disposizione per governare qual che resta dei democrat.

Il segretario infatti ha ereditato un partito ai minimi storici, e soprattutto è ancora un generale senza armate. Diventato numero uno dopo il disastro renziano del marzo 2018, con la lista sprofondata al 18 per cento, Zingaretti al Nazareno ha subito due scissioni (quella di Italia viva e quella di Azione! di Carlo Calenda), ed è stato costretto a muoversi con cautela in un organismo balcanizzato in cacicchi e fazioni contrapposte, nessuna delle quali guidata da lui. I gruppi parlamentari rispondono ad altri: il peso maggiore, oltre un terzo dei parlamentari, resta appannaggio di Base riformista, guidata da ex renziani come Luca Lotti e Lorenzo Guerini. Le altre due correnti più rilevanti sono guidate da Dario Franceschini e Andrea Orlando, diventati – insieme a Guerini – ministri del nuovo esecutivo Draghi.

Senza forza personale da poter spendere a Palazzo Chigi, quasi inesistente in parlamento, Zingaretti è sottorappresentato persino nella segreteria nazionale del partito, avendo lui stesso scelto un modello di comando opposto a quello verticistico (e fallimentare) di Renzi. Il governatore laziale dopo il plebiscito delle primarie non si è costruito una corrente personale, ma ha deciso di indossare i panni del “federatore”. Con l’intenzione non dichiarata di pacificare le varie anime democrat in lotta tra loro.

Ora, l’addio del senatore di Rignano è stato meno traumatico – in termini elettorali – di quello che si temeva. E nonostante margini di manovra risicati il segretario ha ottenuto risultati politici dignitosi: nonostante il Pd controlli una quota superiore al 10 per cento di parlamentari, ha rimesso il Nazareno al centro della politica nazionale (aiutato da Goffredo Bettini e Franceschini), strappando ministri di peso nel Conte II e confermandosi principale “fornitore” di classe dirigente anche nel nuovo governo Draghi. Ha vinto le elezioni europee e pareggiato alle ultime regionali, riuscendo a tenere botta - dopo l’Emilia-Romagna - anche in una regione chiave come la Toscana, che molti davano per persa.

Nonostante le spinte centrifughe, Zingaretti attraverso mediazioni costanti e una direzione “liquida” è finora riuscito comunque a mantenere il partito unito, sia a Roma sia sui territori. Costruendo nel contempo un’alleanza semi-strutturale con il M5S e Leu che – piaccia o meno – è finora unica alternativa politica al blocco di centro-destra di Salvini, Berlusconi e Meloni.

Certo, i limiti comunicativi e politici restano. E l’appellativo di Re Tentenna lo caratterizzerà ancora a lungo. Ma chissà se nei prossimi mesi, anche grazie all’arrivo di un premier pragmatico e dai modi pacati come Mario Draghi, il “segretario minore” riuscirà a prendersi una rivincita su tanti detrattori che, forse, sono stati troppo parziali nel loro giudizio.

 

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