Sono in molti a interpretare il risultato piuttosto deludente ottenuto dalla Lega alle regionali come un altro segno di quel tramonto del populismo che i sondaggi sfavorevoli a Donald Trump, le traversie di Jair Bolsonaro, l’offuscamento dell’astro di Marine Le Pen, l’estromissione della Fpö dal governo austriaco e altri segnali sparsi per l’Europa fanno pronosticare a vari osservatori. E non sono solo i giornalisti ostili a sostenerlo, ma anche esponenti politici del centrodestra e dello stesso partito di Matteo Salvini (Giancarlo Giorgetti come sempre in testa). Che invitano il Capitano a fare, se non un passo indietro, alcuni passi di lato e a sfilarsi, dopo le celebri felpe, anche quell’immagine di agitatore sanguigno e facinoroso che pure era sembrata la carta vincente per sfondare il perimetro geografico che aveva sempre determinato la subalternità del suo movimento nello scacchiere nazionale.

C’è chi mette in discussione la possibilità che un centrodestra sotto la sua leadership troppo “marcata” possa raggiungere la percentuale necessaria, con la futura legge elettorale, a raggiungere la maggioranza assoluta di seggi indispensabile – visti gli orientamenti dell’attuale presidente della Repubblica e quelli prevedibilmente analoghi del suo successore (se ce ne sarà uno) – per governare. Chi vorrebbe conservargli un ruolo apparente di guida, imbrigliandolo però in una collegialità coalizionale che, come molti esempi del passato insegnano, attribuirebbe un potere di veto alle “mosche cocchiere” del caso (FI e Udc).

Chi aspetta di veder passare sul fiume il cadavere dell’alleato concorrente sull’onda di qualche sorpasso locale, magari in occasione delle elezioni comunali del prossimo anno, che consentirebbe di rivendicare il ruolo di cerniera di una coalizione che resta, nel fondo, eterogenea. Chi punta su una Lega ipoteticamente più malleabile (ma lo sarebbe davvero?) e comunque più pragmatica soffiando sul fuoco di una rivalità con Luca Zaia, con l’obiettivo massimo di una sostituzione alla segreteria ma anche, in subordine, su quello più limitato del condizionamento del presidente veneto sulle scelte del capopopolo lombardo.

L’inversione di tendenza

E c’è perfino chi auspica un vero e proprio riposizionamento non solo di immagine ma anche e soprattutto di sostanza, strappando la Lega dalle grinfie sulfuree del gruppo “lepenista” di Identità e democrazia all’europarlamento per farla approdare alle sponde tranquille e devitalizzanti del Partito popolare europeo.

Il tempo ci dirà se queste più o meno ambiziose strategie dei concorrenti esterni e interni di Salvini avranno successo. Quel che ora conta, ai fini di un’analisi oggettiva della situazione, è capire se le ipotesi di “depopulistizzazione” totale o parziale della Lega che ognuna delle posizioni citate sottende, avrebbero una concreta possibilità di rovesciare la tendenza al ridimensionamento dei consensi che si è manifestata negli appuntamenti elettorali dell’ultimo anno e mezzo.

Chi ne è convinto dimentica piuttosto in fretta i fattori che hanno condotto al clamoroso risultato leghista alle europee del maggio 2019. Salvini affrontò quelle elezioni da ministro dell’Interno di un governo che, a torto o a ragione, veniva presentato all’opinione pubblica come quello dell’alleanza fra i populisti e godeva nei sondaggi dell’approvazione di due terzi degli italiani. Un ministro che si distingueva per l’irruenza polemica, per i provvedimenti drastici (quanto efficaci, in questo contesto non conta appurare) assunti e pubblicizzati in materia di contrasto all’immigrazione e di tutela della sicurezza, per le costanti critiche all’Unione europea e, last but not least, per la periodica riaffermazione del suo disinteresse per il discrimine sinistra/destra, definito a ripetizione superato e ininfluente. La Lega del 35 per cento era, quindi, dichiaratamente populista e trasversale. E sottraeva voti al M5s, alla destra e perfino alla sinistra. Che questo non piacesse a Forza Italia e a Giorgetti era nell’ordine delle cose. Ma funzionava.

La scelta suicida del Papeete ha avviato l’inversione di tendenza. E la mancata spallata emiliano romagnola ha causato uno choc. Gli errori tattici e strategici si sono infittiti nell’emergenza Covid-19, con continui cambi di rotta. Da ciò il riflusso nell’ottica di coalizione, che però non pare funzionare. Forse è venuto, per Salvini e i suoi, il momento di porsi una domanda: c’è un’alternativa convincente, per il suo elettorato potenziale, a una Lega integralmente populista? Il dubbio è quantomeno lecito.

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