Per bilanciare l’America di Trump è necessario un grande movimento popolare, animato da quelli che una volta si sarebbero chiamati “gli intellettuali”. Nel solco di quella che Carlo Maria Martini chiamava “euro-responsabilità”, fuori dai sovranismi nel solco di una cittadinanza come appartenenza internazionale
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, con tutti gli inquietanti segnali che l’hanno accompagnato e seguito, sarebbe per alcuni l’occasione per una palingenesi del progetto europeo, che dalla sfida con il modello americano in putrefazione potrebbe trarre nuovo slancio. Ora, che una circostanza di per sé negativa possa essere generativa di un bene maggiore è il più classico wishful thinking, e qui forse ci si è ricascati.
Già è difficile di per sé capire bene quale sia il progetto europeo. Dal 2001 in avanti, una serie di emergenze hanno suggerito (o imposto) di modificare il percorso che si era intrapreso – prima il terrorismo; poi la crisi economica, con le sue ripercussioni decennali; infine la pandemia. Forse il progetto europeo che varrebbe la pena rispolverare era quello su cui si stava ragionando appena prima di questa soluzione di continuità durata ormai quasi 25 anni.
Le idee del 1996
Nel 1996, a Milano, il Movimento federalista europeo aveva organizzato un convegno che ebbe una certa rilevanza, sul tema «Un Governo per l’Europa». In quella circostanza, l’allora Arcivescovo Carlo Maria Martini proponeva una «euro-responsabilità» che percorresse tre vie per una «nuova era dell’umanità».
La prima era il «superamento della sovranità assoluta degli Stati». Poi, la «democrazia internazionale», per «riconoscere e difendere i diritti delle minoranze contro la tendenza all’uniformità». Infine, «la nuova dimensione della cittadinanza che si configura non solo più come fatto nazionale, in qualche modo escludente e discriminante, ma come appartenenza internazionale». Questo resta l’unico progetto europeo che varrebbe la pena recuperare.
Un progetto del genere – era chiaro già a chi parlava nel 1996 – richiederebbe un ripensamento delle strutture europee che i venticinque anni di emergenze che sono intervenuti hanno prestato l’alibi per non affrontare.
Le modifiche che tra il 2007 e il 2009 son state apportate alla sua architettura costituzionale hanno soltanto in parte risposto all’esigenza di un passaggio da un’Europa degli Stati ad un’Europa dei popoli. E le riforme – per lo più in campo finanziario ed economico – che hanno fatto seguito alla crisi economica non hanno fatto altro che perpetuare scelte orientate da una chiara scuola ideologica, non suscettibile di universale condivisione.
Così, le urgenze di riforma sono tutte rimaste, se non si sono rese ancora più gravi, e se non è stato possibile affrontarle in momenti in cui in Europa vi era una certa comunanza di visione politica, è del tutto improbabile – e forse, in realtà, per niente auspicabile – che le si affronti ora, quando le divisioni politiche sono molto più profonde e arrivano a riguardare quelli che una volta si sarebbero detti i valori comuni dell’Unione: Stato di diritto, pluralismo, non discriminazione, e via dicendo.
Se qualche sussulto europeo potrà esserci, forse sarà il sussulto della vecchia Europa mercantile, che c’è da credere – questo sì – non rimarrà inerte dinanzi alle sfide che il presidente Usa lancia in maniera spregiudicata a colpi di dazi. Ma del progetto di cui parlava Martini nel 1996 – e con lui molte altre e molti altri, beninteso – non resta traccia, e certo non vi sarà più Europa dei diritti a bilanciare l’America di Trump.
È bene che un punto sia chiaro: siamo in una stagione in cui non ci si può attendere che dei diritti si occupino i governi o gli Stati. In fondo, lo intuiva già la voce profetica di Martini in quel suo intervento: «L’Europa degli Stati non solo non basta più, ma anzi, dal punto di vista economico e sociale, è un ostacolo. Dunque, molteplicità di attori e policentrismo».
Un movimento popolare
È necessario che il sussulto venga dal basso, con un grande movimento popolare, che però sia animato – non occasionalmente, ma con una certa studiata regia – da quelli che una volta si sarebbero chiamati “gli intellettuali”, a cominciare da chi è impegnato nel mondo dell’università. E questo non certo per carismatici doni di maggiore comprensione della realtà o altro, ma semplicemente perché la loro posizione di privilegio è in fondo meno a rischio di quella di altri, il che fa sì che una loro mancata esposizione pubblica sia di fatto meno scusabile.
Questo sussulto dal basso, con una speciale responsabilità di alcuni, è forse l’unico effetto collaterale positivo che si può sperare dal ritorno di Trump alla Casa Bianca, che poi è solo la punta d’iceberg di una stagione nera sul piano dei diritti. Sperando che anche questo non sia niente altro che un ingenuo wishful thinking.
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