La pioggia d’odio e di parole senza senso che viene sparsa sul globo a mezzo social sembra sia colpa di una norma americana, il Communication Decency Act del 1996, sezione 230, che per spianare la strada al novello business di Internet assimilò gli organizzatori di servizi interattivi (i Google, Facebook e compagnia dell’oggi) all’edicolante dietro l’angolo che ospita i giornali, ma non risponde del loro contenuto.

Col che si dava il via alla bizzarra situazione per cui, dove la stampa, la tv e i mass media hanno un editore responsabile, in Internet c’è un buco e quindi i social trasportano di tutto, raccolgono miliardi e vivono sereni fra gattini, complottismi, ricette, spogliarelli, cure alternative.

Le istituzioni americane gli hanno retto il sacco perché tutti quei soldi si fanno rispettare e anche perché attraverso i mezzi delle company osservano e indagano ogni sussurro nell’intero mondo.

Ma si sa che quando c’è di mezzo la salute è un’altra cosa e così di recente due senatori degli Stati Uniti (Klobuchar e Lujàn) hanno proposto una legge che sospenda la manleva del 1996 limitatamente al campo della disinformazione sanitaria, al fine di costringere i social a trasformarsene in censori.

Subito molti hanno obiettato che il problema è vero, ma il rimedio pare pessimo perché crea una pericolosa eccezione alla libertà d’espressione sancita nel primo emendamento.

Ovviamente anche noi in Europa dobbiamo chiederci se, come e quanto sia consigliabile risvegliare le voglie di censura.

Un approccio diverso potrebbe consistere nel guardare al senso letterale delle parole di quella legge del 1996 e chiedersi se davvero essa tolga dalle spalle dei social ogni responsabilità su quanto gira in rete. È ovvio che questo valga per i post rispetto ai quali il social si limiti alla fornitura del servizio tecnico previsto.

Ma da nessuna parte è scritto, per quanto ne sappiamo, che la norma riguardi anche le azioni in cui ci mettono del loro selezionando, influenzando e dopando in vari modi il testo postato da un utente.

Il che è noto avviene aggiungendo enfasi grafiche, pompaggio di notifiche, rilanci mirati e ripetuti e per la stessa esistenza dei bottoni like/dislike (tanto che YouTube ha appena annunciato di aver eliminato l’esposizione dei dati del secondo perché più vulnerabili ad azioni ostili strumentali).

Il culmine del protagonismo del social ovviamente coincide con la scelta fior da fiore dei post che  all’algoritmo paiono i più adatti a stimolare traffico e ricavi.

Per questo, d’altra parte, gli utenti più scaltriti tengono conto fin dall’origine dei criteri di scelta impostati nell’algoritmo della casa. E quindi, che a quest’intera dinamica si guardi ex post, quando l’algoritmo seleziona il “meglio” nella massa oppure ex ante, quando palesa quello che gli piace, ai nostri occhi compare molto chiara un’autentica “direzione editoriale”, ovvero il massimo ruolo concepibile nella catena di attività e scelte che conduce a un contenuto.

Se è vero che le piattaforme social non “scrivono” come facciamo noi, di sicuro “soprascrivono” i testi nostri in vari modi non sempre né a casaccio, ma quando gli fa comodo. Nulla di nuovo sotto il sole, perché lo fa perfino Mario Giordano su Rete 4, quando prende la parola del popolo e la incastra in un racconto tutto suo.

Ovviamente è proprio questo racconto soprascritto a mezzo d’algoritmo, il contenuto che più genera trend, subbugli e sedizioni. E dunque, senza mettere a repentaglio il Primo emendamento col ricorso a leggi d’emergenza, i senatori americani potrebbero limitarsi a constatare che la “responsabilità editoriale” dei social già esiste e attende solo di essere evocata.

Quanto all’utente qualunque i casi sono due: 1) opera a viso aperto e si espone alla responsabilità per quel che dice; 2) oppure è una iena da tastiera che opera da anonimo e in questo caso la responsabilità è comunque del social che ne accetta all’iscrizione.

Il piglio della Ue

Se gli Stati Uniti mostrano reticenze a rimettere ordine nell’anarchia monopolistica corrente, perché nel bene e nel male è cosa loro, la Ue, mostra un piglio più deciso e, a quanto si sussurra, lavora propria per la messa a punto del criterio della responsabilità editoriale.

Lo spazio logico, fattuale e politico per riuscirci esiste. Con l’auspicio che non si risolva tutto con la creazione di qualche Comitato di controllo e si tratti invece dell’affermazione di un principio che dia fondamento alle eventuali azioni giudiziarie di cittadini che si ritengano danneggiati dai contenuti promossi dai provider della rete.

Sistemata così la responsabilità circa la comunicazione in rete moltiplicata con metodo industriale, gli utenti comuni, che parlano alle proprie cerchie, potranno essere lasciati ai loro sfoghi. 

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