Chi ha paura dell’inflazione? Per tanti anni è rimasta fin troppo bassa in tutti i Paesi avanzati. A preoccuparsene, negli ultimi mesi, sono stati per ora solo i mercati finanziari. La caduta dei prezzi di titoli cruciali come quelli del Tesoro Usa e del governo tedesco ha fatto impennare i loro rendimenti e tremare anche i corsi delle azioni. Dal 30 novembre al 12 maggio il rendimento dei Treasuries a 10 anni è esattamente raddoppiato, sfiorando 1,7 per cento, il Bund è passato da -0,6 a -0,1 e il Btp da 0,6 a 1 per cento. I paesi più poveri e indebitati sono i primi a risentirne, ma una continuazione del fenomeno creerebbe problemi dappertutto, frenando la ripresa e minacciando crisi finanziarie.

Inflazione attesa con pochi sintomi

Federal Reserve Chair Jerome Powell is seen in a reflection as he testifies before a House Financial Services Committee hearing on Capitol Hill in Washington, Wednesday, Dec. 2, 2020. (Jim Lo Scalzo/Pool via AP)

Le aspettative di inflazione aumentano i rendimenti dei titoli perché con inflazione più alta (1) chi compra i titoli vuole essere compensato per la loro perdita di potere d’acquisto e (2) è più probabile che le banche centrali aumentino i tassi che controllano per frenare l’aumento dei prezzi.

Tassi di interesse più alti aumentano l’onere dei debiti passati solo quando devono venir rinnovati ma la corrispondente caduta dei prezzi dei titoli è immediata e costosa per chi li detiene: se sono banche ne deprime la capitalizzazione e aumenta il costo del credito a imprese e famiglie. Nell’eurozona potrebbero ricrescere gli spread dei paesi membri più indebitati, come l’Italia, fino a far riaffacciare lo spettro del 2012 quando i mercati temettero la dissoluzione dell’euro.

I sintomi dell’avvento di un’inflazione pericolosa sono per ora scarsi, diversi da Paese a Paese, riconducibili in parte ad aumenti di prezzi che non dovrebbero ripetersi, a revisioni degli indici dei prezzi, a ostacoli all’offerta di servizi (come i trasporti), scarsità di alcuni prodotti (come i semiconduttori), rialzi di costi energetici che si pensa cesseranno, a fenomeni una tantum come il ritorno dell’aliquota dell’Iva tedesca ai livelli precedenti la pandemia. Per ora non si è andati oltre un balzo nei primi mesi dell’anno dei prezzi al consumo negli Stati Uniti e in Germania, nei prezzi ingrosso in Cina e una graduale correzione della deflazione dell’anno scorso un po’ dappertutto.

La Commissione europea prevede per l’area euro l’inflazione dell’1,7 per cento quest’anno e 1,3 nel 2022. L’inflazione attesa ricavabile da alcuni contratti finanziari e da sondaggi professionali rimane accelerata quest’anno ma poi rientra attorno al 2 per cento in Europa e poco più negli Usa.

Va anche detto che un’inflazione più alta di quella degli ultimi anni è benvenuta e attesa da tempo: è segno di ripresa della domanda e della crescita e attenua l’onere reale dei debiti.

Ciò è vero soprattutto in Europa dove da anni la Bce si adopra per aumentarla. Negli Usa la situazione è un po’ diversa perché la pandemia ha frenato un’inflazione che stava superando il 2 per cento e la Fed ha già rivisto i suoi obiettivi accettando che torni a superarlo in modo da compensare il forte rallentamento dell’anno scorso.  

Falso allarme?

È dunque un falso allarme quello che fa vendere le obbligazioni per paura di un forte aumento dell’inflazione, spuntare il boom delle borse azionarie nel timore che strette monetarie antiinflazionistiche la deprimano, cautelarsi contro un forte freno all’economia cinese che Pechino potrebbe imporre per fermare l’accelerazione dei prezzi? Forse sì, ma con diversi "però”.

Innanzitutto l’inflazione è molto sensibile alle aspettative: quando è attesa, chi fa i prezzi la rende effettiva. Si propaga dai beni intermedi a quelli finali, dai ricavi ai costi e viceversa. Le attese di inflazione possono incorporarsi nei salari moltiplicandosi in spirali.

È dunque importante che le aspettative di inflazione rimangano contenute e non si diffondano dal mercato finanziario, dove non devono alzare troppo i tassi di interesse, a quello dei beni e servizi.

In secondo luogo, se è vero che un po’ di inflazione non fa che festeggiare il ritorno della crescita post-pandemica, è possibile che per diverso tempo l’aumento della domanda aggregata si incontri con un’offerta nella quale il Covid-19 ha inserito ostacoli, disordini, trasformazioni che la irrigidiscono ampliando, diffondendo e prolungando la crescita dei prezzi ai quali trova equilibrio con la domanda.

D’altra parte, anche i cambiamenti nella composizione della domanda conseguenti alla pandemia potrebbero contribuire ad aumentare durevolmente l’inflazione, premendo su produzioni che chiedono tempo per adeguarsi, come quelle ecologicamente compatibili o quelle necessarie per lo sforzo di digitalizzazione in corso in tutto il mondo. Il sistema si sta faticosamente ristrutturando: la spinta inflattiva potrebbe alimentarsi con gli attriti fra la ripresa e le trasformazioni in corso nell’economia.

Una trappola della liquidità

Un terzo “però” viene pensando all’enorme liquidità creata dalle politiche monetarie fin da diversi anni fa, aumentata dalle iniezioni di moneta necessarie a evitare che il Covid soffochi il sistema economico. La moneta con l’inflazione è come la benzina con l’incendio: non lo produce ma, se si accende un fiammifero, lo alimenta.

Se si innesca una spirale fra l’inflazione effettiva e quella attesa non mancherà la liquidità per alimentarla. Le autorità monetarie non staranno con le mani in mano, ma frenare la spirale riasciugando il mare di moneta non sarà facile.

Ed è questo il “però” più grave: le banche centrali sono finite in una trappola della liquidità dove non solo è impossibile abbassare i tassi, come nella famosa trappola keynesiana, ma è anche difficile alzarli.

Nel momento in cui le autorità monetarie si convincessero che l’inflazione supera il giusto limite e decidessero di cominciare, anche con gran prudenza, ad aumentare un poco i tassi di interesse a breve che sono sotto il loro diretto controllo, i mercati avrebbero conferma di una svolta monetaria che molti aspettano da tempo. Si attenderebbero dunque una serie piuttosto lunga di ulteriori rialzi dei tassi e tradurrebbero questa attesa in un immediato, forte aumento dei tassi a medio-lungo sui mercati. Aumento che sarebbe ancor più subitaneo e ampio se le banche centrali, oltre a elevare i tassi a breve, smettessero di comprare o, addirittura, cominciassero a vendere i titoli acquistati in molti anni di “quantitative easing”.

Lo scenario potrebbe travolgere anche la borsa azionaria e diventare quello di una crisi finanziaria, soprattutto in Europa dove molti titoli di Stato sono nel bilancio delle banche i cui bilanci tremerebbero al diminuire dei loro prezzi. È un pericolo che le autorità hanno ben presente e che potrebbe indurle, come ha forse già fatto negli ultimi anni pre-pandemia, a rinviare la stretta anti-inflazionistica. È la trappola della scelta fra inflazione eccessiva e crisi finanziaria.

Perché evitare l’inflazione

Jean-Francois BADIAS

Ma se combattere l’inflazione può causare addirittura una crisi finanziaria perché non lasciarla crescere? Sono passati più di trent’anni da quando l’inflazione è stata un problema serio nei Paesi avanzati. Persino nei corsi di macroeconomia si rischia di tralasciare la spiegazione del perché l’inflazione sia da evitare.

Fra i tanti perché, alcuni sono più importanti. Consideriamo un’inflazione diffusa in tanti Paesi e tralasciamo il pericolo di raggiungere il baratro dell’iperinflazione che distrugge la convivenza economica e civile.

Quando l’inflazione si inoltra verso le due cifre porta disordine nei rapporti fra i prezzi dei vari beni, che non salgono tutti alla stessa velocità, disorientando chi deve scegliere che cosa comprare e che cosa produrre e peggiorando così la qualità delle produzioni, dei consumi e degli investimenti. Chi può decidere o influenzare un prezzo cerca di rincorrere gli altri o di batterli sul tempo, specula, sciupa energia e risorse come un nuotatore sorpreso dal mare mosso.

Particolarmente costoso e difficile è l’adeguamento delle retribuzioni che perdono potere d’acquisto. Entrano in tensione le contrattazioni sindacali, i contraenti più deboli perdono e quelli con maggior forza contrattuale guadagnano e il tutto compromette giustizia ed efficienza. Tariffe pubbliche, pensioni e altri redditi fissi che è laborioso cambiare, sono le vittime più evidenti. Inoltre l’inflazione trasferisce ricchezza, potere d’acquisto, dai creditori ai debitori, agendo come una tassa e un sussidio senza ragione né voto parlamentare.

Fra i maggiori debitori ci sono i governi di tutto il mondo: forse è per questo che sembrano preoccuparsi di più quando l’inflazione è troppo bassa che non quando minaccia di alzarsi troppo?

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