Da quando, undici anni fa, è nata Trenord (azienda partecipata al 50 per cento regione Lombardia e al 50 per cento da Fs, ma con accordi parasociali secondo i quali il controllo effettivo è nelle mani della Regione), il federalismo ferroviario lombardo è andato avanti con due affidamenti diretti all’azienda: il secondo (2015-2020), a cui si è aggiunto un anno di proroga a causa del Covid, si è appena concluso, ma oggi, anziché risolvere il contratto di servizio con Trenord per i palesi inadempimenti, la regione Lombardia ha avviato le procedure per una nuova maxi-proroga di altri 10 anni.

Nella regione che si autoproclama la più “liberale” d’Italia, insomma, non è stato avviato nessun meccanismo concorrenziale, a differenza di quanto accaduto in molti paesi europei che hanno dato vita con successo a una fase competitiva che ha rilanciato il trasporto locale, aumentato la produttività e ridotto i costi. 

Con 700 mila passeggeri al giorno la rete ferroviaria lombarda soddisfa meno della metà della domanda potenziale di un’area regionale di analoghe dimensioni come la Baviera, dove sui treni pubblici viaggiano 1,8 milioni di passeggeri al giorno. Eppure la Lombardia spende quasi 900 milioni di euro l’anno, 2,4 milioni di euro al giorno - il costo/km più alto d’Italia, rispetto alle altre gestioni regionali - per far viaggiare 2.200 treni al giorno e retribuire 4.300 ferrovieri.

In più occasioni la regione avrebbe potuto e dovuto risolvere il contratto con Trenord. Ma l’assetto giuridico dei rapporti tra la regione e l’azienda, e il conflitto d’interessi che lo contraddistingue, ha impedito questa scelta. La regione è infatti, al tempo stesso, il programmatore e il compratore dei servizi ferroviari regionali, nonché il proprietario di Trenord, di cui nomina il management. 

L'avvio delle procedure per il rinnovo del contratto di servizio resta in ogni caso una decisione sorprendente, perché in tutti questi anni gli indici di puntualità di Trenord sono crollati anche in periodi di riduzione dell’offerta. L’emergenza Covid, poi, ha fatto emergere tutti gli scompensi organizzativi e gestionali dell’azienda, denunciati dai comitati dei pendolari su tutte le 21 linee gestite da Trenord.

Fin dall’inizio la nascita di Trenord, cioè la fusione di due aziende monopoliste, aveva destato molte perplessità tra gli esperti. 

La conflittualità sindacale ha raggiunto il record di 14 scioperi in poco più di un anno nel 2014; la produttività del lavoro è precipitata mentre i costi di gestione sono aumentati esponenzialmente; le supposte ‘economie di scala’ che sarebbero dovute arrivare dalla fusione dei due vettori non si sono viste. 

Per non parlare della costosissima innovazione del bonus per i pendolari in caso del superamento dei parametri di affidabilità (ritardi e soppressioni). Novità che ha avuto due effetti negativi: alti costi (diversi milioni all’anno di restituzione dei prezzi dell’abbonamento), e una specie di penale pagata non dai manager inefficienti, ma dalla regione.

Con un altro effetto negativo: l’“istituzionalizzazione” dei ritardi. I treni vengono soppressi oltre il pattuito? Il viaggiatore verrà  indennizzato del 30 per cento dopo un mese di via crucis in treno. 

La crisi del trasporto ferroviario lombardo non si risolve con un nuovo affidamento diretto decennale, in contrasto con le direttive antitrust europee e con le indicazioni del governo, ma prendendo atto che serve mettere finalmente a gara il servizio, per separare nettamente la programmazione della gestione. E per mettere fine ad un uso improprio e consociativo dell’azienda sulle spalle dei lombardi.

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