Non poteva mancare. E infatti c’è. Come in tutte le edizioni precedenti da almeno vent’anni, anche nell’Allegato Infrastrutture del Def di quest’anno, il più importante documento di politica economica, ritorna il mitico riequilibrio modale. Meno auto e meno camion e più treni.

Si legge infatti nel documento che: «Nel 2019, limitandosi ai soli trasporti terrestri (gomma + ferro) dei passeggeri, la ripartizione modale risultava estremamente sbilanciata in favore del trasporto individuale (82 per cento) a discapito del trasporto collettivo (ferroviario 6 per cento e altri extraurbani 10 per cento). Al 2030 si stima un incremento di utilizzo del trasporto ferroviario del 66 per cento a discapito del trasporto privato, che vedrà ridurre la propria quota modale del 6 per cento». La stima non è del ministero ma è attribuita esplicitamente a Rfi, la controllata delle Ferrovie dello Stato. Solo di poco inferiore, pari al 54 per cento, è la previsione di crescita per il trasporto delle merci.

Il ventennio del ferro

In Italia così come in Europa le due decadi a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo hanno visto la più grande trasformazione della rete ferroviaria in decenni con la realizzazione dell’alta velocità. Nel 2007 l’allora presidente del Consiglio, Romano Prodi affermava: «Da cento anni il sistema ferroviario italiano è immutato. In pochi anni dobbiamo cambiare la struttura ferroviaria sostituendo un semplice trasporto con un sistema moderno». Gli faceva eco l’allora ad delle Ferrovie, Mauro Moretti: «Con il completamento dell’opera si apre un capitolo nuovo per l’Italia, un’opera che cambierà tutto quello che c’è». È andata davvero così?

Per la maggior parte degli spostamenti degli italiani nulla in realtà è mutato rispetto a prima. Solo per una nicchia di domanda che interessa duecentomila persone al giorno i viaggi sono divenuti più comodi e rapidi.

Se consideriamo la quota di mercato della ferrovia non è cambiato pressoché nulla: dal 5,6 per cento del 2007 si è passati all’attuale 6 per cento. Altrove l’evoluzione non è stata diversa: nonostante gli ingenti investimenti e sussidi (1.000 miliardi trasferiti nei soli primi tre lustri di questo secolo), la quota del trasporto su ferro è rimasta invariata a scala europea e in tutti i maggiori Paesi dell’Europa occidentale quella dell’auto è identica o addirittura superiore alla nostra: 83,8 per cento in Germania, 82,1 per cento in Francia, 83,1 per cento in Spagna, 84,8 per cento nel Regno Unito. Non saranno altri cospicui trasferimenti a pioggia a modificare, se non marginalmente, questo equilibrio anche perché le opportunità di investimento relativamente più redditizie sono già state colte.

Chi paga il conto

© Silvio Durante / LAPRESSE Luglio 1952 Archivio Storico Binari ferrovia Nella foto: Incroci di binari della ferrovia Neg. 28440

Vi è un dato contenuto nell’Allegato al Def che ci consente di comprendere come le previsioni di domanda in esso contenute siano irrealistiche.

Si legge nel testo che: «La realizzazione della programmazione ferroviaria prevista porterà a una riduzione del tempo di viaggio di circa il 17,2 per cento». Ora, anche assumendo un valore relativamente elevato di elasticità della domanda in relazione al tempo di viaggio e ipotizzando che i prezzi dei servizi rimangano invariati rispetto a oggi, tale miglioramento può realisticamente produrre un incremento di domanda assai più contenuto di quello indicato.

Come già accaduto con le tratte ad alta velocità in esercizio, un incremento della quota modale della ferrovia che non sarà di punti ma di decimi di punto percentuale. E, di conseguenza, gli effetti su congestione, CO2 e incidenti saranno pressoché trascurabili.

È come se un investitore privato realizzando un nuovo impianto produttivo stimasse le future vendite pari a multiplo di quelle effettive. Per costui la sovrastima comporterebbe la perdita del capitale investito. Non vi sarà invece alcuna conseguenza negativa per l’impresa ferroviaria pubblica che oggi produce stime di crescita non credibili ma che sono la giustificazione del trasferimento alla stessa di ingenti risorse pubbliche né per chi le avvalla politicamente.

Tra dieci anni, quando si potranno mettere a confronto preventivi e consuntivi, nessuno potrà chiedere conto del divario tra i due termini. Il conto, però, lo pagheranno gli ignari contribuenti che sono tanti e singolarmente danneggiati per un ammontare modesto. Al contrario, i beneficiati, imprese, utenti dei servizi e decisori politici, hanno interessi concentrati, immeditati e visibili.

La sola via di uscita sarebbe quella di affidare a un soggetto terzo, privo di conflitti di interesse, la valutazione della domanda e del ritorno degli investimenti.  

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