Chi ricopre incarichi pubblici ha il dovere della trasparenza. Non vale solo per il palazzo di cui è amministratore a tempo determinato, che deve essere una casa di vetro tale da permettere a ogni cittadino di conoscere i processi decisionali ed eventuali conflitti di interesse.

Lo stesso principio va applicato con rigore alla gestione del patrimonio privato di un manager che maneggia denaro pubblico e di un politico. Chi governa una regione, per esempio, non può invocare il diritto alla privacy sul patrimonio personale di fronte alla scoperta di conti all’estero nei quali sono custoditi milioni di euro all’insaputa degli elettori.

Allo stesso modo un leader politico dovrebbe rinunciare a finanziamenti privati da aziende i cui affari dipendono da scelte politiche e che possono rappresentare conflitti di interesse. E questo dovrebbe valere a prescindere da eventuali reati o profili penali. Non sempre c’è la corruzione di mezzo, il più delle volte si esaurisce nella riconoscenza, che di penale non ha nulla ma sul piano etico è discutibile.

Perché certamente saranno provviste accumulate legalmente, ma può anche capitare che siano soldi arrivati da chissà quali circuiti in grado di condizionare l’attività politica.

Per dissipare ogni dubbio, perciò, è necessario che chi amministra la cosa pubblica compia uno sforzo di trasparenza maggiore. Il caso di Attilio Fontana è in questo senso l’emblema del rapporto tra privacy e trasparenza. Emerso, oltretutto, da un conflitto di interesse palese durante la prima ondata della pandemia: l’acquisto di dispositivi di protezione, in questo caso camici, da parte della regione forniti da una società più che nota a Fontana, ossia la ditta del cognato e della moglie del presidente.

Nel percepire il conflitto che lo avrebbe messo nei guai Fontana aveva pensato bene di risolvere la cosa pagando di tasca propria i camici. La mossa però ha prodotto un effetto inaspettato: far emergere l’esistenza di conti correnti in Svizzera, che per un politico sono sempre imbarazzanti

Il fatto, tuttavia, che aggrava la posizione di Fontana è che neppure dopo la notizia dei camici del cognato ha sentito il bisogno di rivelare ai cittadini lombardi di essere il titolare di un deposito estero con cinque milioni di euro. Lo abbiamo appreso dagli articoli pubblicati a luglio 2020 da questo giornale e dalle indagini della procura di Milano, che scavando sulla storia dei camici aveva individuato il conto.

Dai camici ai conti esteri

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Domani aveva scoperto che esisteva un secondo conto del 1997 sul quale Fontana era delegato a operare, il che smentiva l’impianto difensivo del politico della Lega secondo cui erano conti di cui non sapeva nulla e che i cinque milioni erano l’eredità della madre.

I magistrati hanno così aperto un filone di indagine, parallelo alla fornitura di camici di famiglia, e hanno iscritto Fontana nel registro degli indagati per autoriciclaggio e falsa dichiarazione in sede di voluntary disclosure, cioè lo scudo fiscale con cui Fontana nel 2015 aveva regolarizzato, pagando una sanzione, l’eredità della madre.

Un’inchiesta, tuttavia, che senza la collaborazione delle autorità svizzere difficilmente produrrà una imputazione. Chi indaga avrebbe voluto analizzare tutti i movimenti bancari per capire l’origine del tesoretto. Non sarà possibile farlo. Quando si parla di un presidente di regione la rilevanza penale è marginale.

Conta soprattutto l’etica e l’opportunità di certi comportamenti. Per questo al di là dell’esito dell’indagine, Fontana dovrebbe chiarire una volta per tutte la genesi di quei conti all’estero, schermati da fiduciarie in paradisi fiscali. Può un politico che guida la regione più ricca del paese nascondersi dietro lo scudo della riservatezza svizzera? No. In altri paesi i politici trovati con società offshore si sono dimessi senza finire sotto inchiesta.

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